foto da Quotidiani locali
Giornalista, scrittrice, regista. Ha documentato gli ultimi conflitti in Iraq, Libia, Yemen, Afghanistan e da inviata per LA7, in Ucraina e Gaza. Per i suoi reportage dalle zone di guerra ha vinto prestigiosi premi giornalistici. Francesca Mannocchi, finalista Premio Terzani nel 2020, è attesa a vicino/lontano oggi, mercoledì 8, alle 21, in San Francesco per l’incontro “Raccontare i conflitti oggi”.
Nel suo racconto di uno scenario di guerra di solito da voce a chi la guerra la subisce. Immaginiamo, sia frutto di una scelta molto precisa.
«Delle scelte sicuramente e anche un canone che si è formato e modellato su una serie di maestri, maestre e di letture, sicuramente Sontag e Svetlana Aleksievič, ma anche su errori maturati sul campo. A me non piace affatto la definizione “corrispondente di guerra”, mi piace più la definizione di cronista, narratrice. In realtà quello che facciamo e faccio raccontando la guerra, è ascoltare la voce di chi della guerra non ne può più. E quindi mi verrebbe da dire che è più la narrazione di chi vorrebbe la pace. E tra chi vorrebbe la pace c’è anche talvolta la lettura un po’ periferica, angolare di un certo modo di essere soldati. Soprattutto nella guerra in Ucraina, le voci di chi era soldato di professione e di chi si è ritrovato soldato e soldatessa suo malgrado, li ho molto ascoltati, perché ho cercato di riposizionare queste vite nella vite di chi un tempo era un civile. In questo senso sì, i civili hanno la priorità».
C’è una differenza tra le donne reporter e i colleghi maschi, nel modo di raccontare?
«C’è sicuramente, sarebbe sciocco negarlo. Negli anni ho maturato la convinzione che ad esempio il nostro sguardo sia privilegiato in Medio Oriente e non penalizzato. In tutti i Paesi in cui il domicilio delle persone che incontriamo è vietato agli uomini, noi donne abbiamo accesso. In Iraq possiamo andare al fronte e nella cucina di una donna. Agli uomini questo spesso non è concesso. È molto cambiato il mondo dei cronisti nelle zone di conflitto quindi io tenderei di più a vedere il lato positivo».
Lei è stata in molti campi profughi. Che cosa li accomuna?
«C’è una cosa comune a tutti i campi profughi sia che siano fatti di tende, di case o baracche, come quello di Shatila. Il campo profughi nasce come temporaneo ma tende a essere definitivo, nella stragrande maggioranza dei casi, ed è un luogo di cattività, in cui l’orizzonte delle persone che ci vivono, penso soprattutto ai bambini, viene ristretto in maniera drammatica perché molto spesso l’unico universo a disposizione di queste nuove generazioni è ristretto alla recinzione del campo».
Uno dei suoi servizi più visti è quello di Jenin, 7 anni che tra le rovine della sua casa distrutta dalle bombe vede come unico futuro quello di combattere. Perché sceglie di far parlare i bambini? Perché scrive che la compassione è un’emozione instabile?
«È un grande insegnamento che arriva da un testo per me fondamentale che è “Davanti al dolore degli altri” di Susan Sontag ed è molto vero quando dice che la compassione in qualche modo ci deresponsabilizza perché l’atto del sentirci emotivamente partecipi a una tragedia ci fa sentire in qualche modo pacificati con la nostra coscienza, come se il cambiamento di quell’ingiustizia in qualche modo non dipendesse più da noi perché abbiamo assolto la nostra funzione partecipativa commuovendoci. La commozione non basta, servono degli atti di responsabilità. E questo per me è molto importante perché la decisione di mostrare i volti dei bambini potrebbe essere frainteso. In realtà è per me un atto politico».
Lei è stata cronista in tanti paesi in guerra. Dopo quello che ha visto e testimoniato conserva ancora una speranza nella pace?
«Conservo una speranza negli strumenti della pace. Un anziano medico in Ucraina mi ha detto che la pace non è quando cessa iI rumore delle armi, ma quando due o tre generazioni non ricordano il rumore delle armi. Dobbiamo partire da lì per modellare la nostra idea di pace».