CASSOLNOVO. «Mi hanno detto quello che avevano fatto. Che Claudio ha sparato per primo con la pistola, poi gli altri con il fucile. Dopo il primo colpo Mohamed è caduto in ginocchio e ha implorato di non ucciderlo. Io li ho aiutati dopo a bruciare il corpo: ho scelto io il posto perché quello era un luogo di spaccio, così che si pensasse a un regolamento di conti».
Il super testimone Luigi D’Alessandro, 36 anni, di Cilavegna, ha confermato lunedì mattina in aula le accuse nei confronti di Claudio Rondinelli, 40 anni, e del padre Antonio Rondinelli, 65 anni, a processo insieme a Carmela Calabrese, madre e moglie degli altri imputati, per l’omicidio di Mohamed Ibrahim, il 44enne ucciso nel capannone di Cassolnovo la notte dell’11 gennaio 2023 e trovato carbonizzato nella sua auto, alla Morsella, tre giorni dopo.
Nella terza tappa del processo in Corte d’Assise (presidente Elena Stoppini) si è consumato il faccia a faccia tra D’Alessandro (che aveva già negato il suo ruolo nel delitto ma confessato le proprie responsabilità nell’occultamento del cadavere) e gli imputati. «Dice solo falsità», hanno dichiarato Claudio e Antonio Rondinelli.
Le accuse del testimone
Una udienza tesa, quella di lunedì, che più volte la presidente della Corte ha dovuto sospendere richiamando imputati e testimoni all’ordine (durante la deposizione di Claudio Rondinelli si è sentito anche un insulto verso il pubblico ministero Andrea Zanoncelli). È la prima volta che D’Alessandro, fidanzato di una delle figlie dei Rondinelli, Elisa (l’altra figlia, Daniela, era la compagna della vittima, con cui aveva avuto una figlia), si è trovato a ribadire la sua confessione davanti agli imputati. Mohamed Ibrahim, per il pm Zanoncelli, fu ucciso a colpi di pistola e fucile nel capannone di Cassolnovo, che i Rondinelli gli avevano ceduto perché potesse mandare avanti l’attività di frutta e verdura.
La storia
Il delitto sarebbe scaturito dalle continue di richieste di denaro da parte di Ibrahim e in particolare della cessione di una casa dei Rondinelli che gli serviva per avere una residenza dove poter ottenere l’affido della figlia. Il giorno dell’omicidio c’era stata a casa dei Rondinelli, a Cilavegna, una discussione con Ibrahim, al pomeriggio. «Alla sera vado con Elisa a casa dei Rondinelli – ha raccontato il testimone –. Capisco che è successo qualcosa. Dopo un po’ Antonio torna a casa, bianco e sudato. Mi ha fatto capire che lo avevano fatto. Mi dice che Claudio ha sparato per primo, me lo ha detto pure Claudio i giorni successivi. È stato lui a chiamare Mohamed fuori dal capannone, mentre il fratello e il padre erano nascosti». Il testimone ha spiegato che oltre ad occultare il corpo (bruciato il 13 gennaio) ha anche dato una mano a far sparire le armi: «Due bossoli li ho nascosti e poi buttati vicino a un torrente, dove li ho fatti ritrovare. Due secchi con armi e munizioni li ho ridati a Massimo».
La difesa degli imputati
«Non c’entro nulla, sono in carcere da un anno e due mesi da innocente – ha insistito Claudio Rondinelli –. Le armi nascoste? Non so nulla. Mi accusate perché ho cambiato auto qualche giorno dopo i fatti, ma era già stata venduta. Con Mohamed non avevo motivi di astio». E così Antonio Rondinelli: «D’Alessandro si è inventato tutto. È un poco di buono, ce l’aveva con me perché non mi piaceva, non accettavo la relazione con mia figlia. A Mohamed invece volevo bene come a un figlio». Si è più volte contraddetto Massimo Rondinelli, fratello di Claudio, già condannato a 19 anni in abbreviato: «Ho fatto tutto da solo, Mohamed mi doveva dare 50mila euro. Quella sera al capannone c’era un altro uomo ma non so chi sia, è scappato». —