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Tutto il resto è noia: l’ultima smorzata di Benoit Paire-

Il 35° compleanno del tennista francese: il segreto del suo talento, le sfuriate, la spiaggia che non esisteva, la semifinale con Federer e la crisi dopo il lockdown

“Andrò a San Paolo per farmi una vacanza, per le spiagge e per bere tutte le bevande alcoliche possibili”

Le categorie del tennis sono simili a quelle della vita: i giocatori felici da una parte, i giocatori arrabbiati dall’altra. La quotidianità del circuito e dei tornei a volte però inciampa e fa confusione, e il dio dello sport del diavolo ribalta i ruoli, perché può capitare di schiacciare il tasto sbagliato, perché il circuito del tennis è una centrifuga: il fuso orario, l’incrocio delle righe, la folata di vento.

Il sistema produce l’errore della beffa e può dunque capitare che il giocatore arrabbiato diventi per un attimo felice, masticando il sapore della vittoria, ma senza assaporarlo: Benoit Paire è stato ed è (forse) ancora l’esempio perfetto di questa teoria. Un uomo che, con un pizzico di amarezza, riesce a stare bene in mezzo alle persone felici ma che allo stesso tempo- orgoglioso- si trova meglio nel gruppo di quelle arrabbiate.

A questo punto la filosofia avrebbe bisogno di una colonna sonora adeguata: ci guardiamo intorno e scegliamo quella, stupenda, di Challengers, firmata da Trent Reznor e da Atticus Ross: il ritmo elettronico che accompagna e costruisce i dialoghi come se fossero lo scambio serrato di una partita di tennis.

Febbraio 2016, cemento indoor: Benoit Paire ha appena perso la semifinale del torneo di Marsiglia e la roulette russa della sua programmazione stagionale ha deciso che adesso è arrivato il momento- perché no- di una breve trasferta sulla terra battuta, in Brasile: “Sì, andrò a giocare il torneo di San Paolo. Per farmi una vacanza, per le spiagge e per bere tutte le bevande alcoliche possibili”.

Un giornalista alza la mano e prova a tirare fuori il coraggio della geografia: “Benoit, ma a San Paolo non c’è il mare…”

“Vorrà dire che andrò in piscina”

Ogni numero di magia è composto da tre parti o atti. La prima parte è chiamata “la promessa”. L’illusionista vi mostra qualcosa di ordinario: un mazzo di carte, un uccellino o un uomo. Vi mostra questo oggetto. Magari vi chiede di ispezionarlo, di controllare che sia davvero reale…sì, inalterato, normale. Ma ovviamente…è probabile che non lo sia. […] Il secondo atto è chiamato “la svolta”. L’illusionista prende quel qualcosa di ordinario e lo trasforma in qualcosa di straordinario. Ora voi state cercando il segreto… ma non lo troverete, perché in realtà non state davvero guardando. Voi non volete saperlo. Voi volete essere ingannati. Ma ancora non applaudite. Perché fare sparire qualcosa non è sufficiente; bisogna anche farla riapparire. Ecco perché ogni numero di magia ha un terzo atto, la parte più ardua, la parte che chiamiamo “il prestigio”

Paire è stato per anni il mago più affascinante del circuito ATP, seducendo gli occhi degli appassionati di nicchia grazie alla bellezza delle sue sconfitte. Avete presente quelli che alla fine tifano sempre per chi perde?  Se la risposta è sì, allora avete presente i tifosi di Paire. Prendiamo ad esempio il duello più iconico degli ultimi anni dello sport mondiale: Hamilton- Verstappen, Abu Dhabi 2021. Hamilton dominò tutta la gara, e nel frattempo ero diventato una specie di ultras olandese. Poi però alla fine vinse Verstappen, e ci rimasi male per Hamilton. Considerate le premesse, Benoit Paire era il mago perfetto per me: generoso, traditore, superficiale. E perdente.

Lui, al netto di qualche sbavatura, rispettava infatti la scaletta tipica del numero di magia, promettendo innanzitutto troppo (la promessa era la sua parte preferita) e sicuramente molto più di quello che poteva mantenere, per poi concederci colpi di scena, illusioni e speranze. Gli è mancato- troppo spesso- solamente il prestigio finale, ovvero il trucco più sopravvalutato di tutti: l’ultimo punto, la vittoria. 

IL SEGRETO E IL REPERTORIO DEL MAGO

Ma quale sarebbe il segreto del mago Benoit? Il segreto del mago Benoit è fin troppo semplice, come quello dei migliori drink (la qualità del ghiaccio), ma noi non abbiamo mai voluto vederlo: è infatti un mancino, nella vita, che però ha prestato il suo talento tennistico al braccio destro. Quando era bambino si ruppe il polso e, pur di continuare ad allenarsi, cominciò a giocare con la mano debole: il talento di Paire è cresciuto al contrario, e non avevamo dubbi. Il genio tipico del mancino, il diritto scadente, il rovescio bimane e luminoso, tra i più incisivi della storia recente del gioco. Con quel rovescio trovava infatti tutto quello che voleva: angoli, rotazioni e profondità, spinto dalla forza della mano teoricamente debole che però, nel suo caso, era invece quella dominante. 

Il vero repertorio di Paire non si limitava alla semplicità della sintesi (dritto molto scarso, rovescio molto forte) ma si nascondeva nelle pieghe del campo e della partita: le smorzate, giocate in maniera ossessiva, le stop volley (la volèe normale, secca e profonda, lo annoiava), gli schiaffi (o schiaffetti) al volo impattati coi piedi che pascolavano nella terra di nessuno, che diventava la terra di Benoit. Paire ha conquistato delle porzioni di campo che prima di lui non esistevano, ha continuamente sfidato sé stesso alla ricerca dello sfizio della soluzione più stilosa: arrivava una palla comoda, e Benoit diventava pericoloso, perché cominciava a pensare, valutando tutte le opzioni. Poi alla fine sceglieva quella più complessa e, appena prima di colpire, cambiava ancora idea, per l’ultima volta. Paire non vedeva l’ora di sbagliare, viveva la partita a caccia dell’applauso ma soprattutto di una scusa per sfogarsi, faceva finta di non crederci ma la verità– anche se ovviamente non lo ammetterà mai- è che ci teneva pure troppo, almeno quanto un classico spagnolo da challenger con il doppio cognome e il trattino in mezzo.

A differenza degli avversari conosceva però solamente una strada, la sua, per vincere le partite di tennis: quella del gusto dei vincenti e del brivido dello spettacolo. Benoit Paire era decisamente troppo pigro per andare a rovistare nel cestino della spazzatura del match, dove si nascondono i punti decisivi.

GLI HIGHLIGHTS DELLA CARRIERA E IL RAPPORTO COL TENNIS FRANCESE

La sua carriera è teoricamente ancora viva, ma viene spontaneo parlarne già al passato: tre titoli ATP (Bastad nel 2015, Marrakech e Lione nel 2019), sei finali perse (la più prestigiosa, a Tokyo, nel 2015, contro l’amico Wawrinka), il best ranking di numero 18, la semifinale di Roma nel 2013, quando sprecò una buona occasione contro un Federer acciaccato: al Foro Italico scoprì improvvisamente l’adrenalina delle maratone (Monaco e Benneteau) per poi dominare il numero 7 del mondo Del Potro. Nei quarti di finale lo aspettava la sua nemesi, e ci riferiamo ovviamente ad uno spagnolo con il doppio cognome- eccoci qui- e il trattino in mezzo (Granollers- Pujol), ma per una volta le cose andarono come dovevano andare: 6-1 6-0, 57 minuti, perché quella era la giusta proporzione del gap di talento tra Benoit e tutti i soldatini del mestiere del circuito ATP.

Paire ha dunque letteralmente vivacchiato per anni intorno alla 40esima posizione mondiale: ogni tanto si distraeva, affacciandosi alla finestra dei top30, o accarezzando addirittura il tennis autorevole dei primi 20, ma poi- non scherziamo- tornava lucido, e perdeva le partite, perché perfino la sensibilità del tocco ha bisogno del sacrificio quotidiano dell’allenamento. Il servizio non ha mai raggiunto la continuità tipica di un atleta alto quasi due metri (1.96, per la precisione), e ci riferiamo in particolare alla percentuale di prime palle in campo e ad un lancio di palla sbilenco. Il diritto è sempre stato scandaloso, e diventa complicato perfino trovare le parole giuste per descriverlo: ci affidiamo allora alla saggezza e al dono della sintesi di Fabio Fognini, che nel corso del match di secondo turno del Roland Garros del 2015 (una specie di riunione a numero chiuso, riservata agli intellettuali della racchetta) ad un certo punto si avvicinò al microfono ed urlò: “Questo qui ha il dritto più scarso di mia sorella”.

Confessiamo di non aver mai seguito un match di Fulvia Fognini però insomma, come dire, tendiamo a fidarci delle sensazioni di Fabio. Quel match comunque, per la cronaca, lo vinse Paire. Tre set a zero.

Il sistema del tennis francese ha sempre cercato di respingere Benoit, e non poteva essere altrimenti: il pacchetto completo, genio e sregolatezza, era un pacchetto difficile da digerire. Quando era ragazzino fu cacciato dal Centro Tecnico Nazionale, dovendosi accontentare di coach di seconda mano, perchè i grandi nomi- come dargli torto- si vergognavano di lui: “Una volta ho rotto tutte le mie racchette, così il mio avversario fu costretto a prestarmene una. Il mio comportamento era arrivato all’estremo. Avevo crolli totali, senza motivo. Un anno mi trovavo a Grasse e non volevo giocare il torneo. Il mio allenatore dell’epoca, Laurent Raymond, ha provato a obbligarmi a giocare, ma per evitare di farlo ho spaccato tutte le mie racchette”, e rendiamoci conto. 

Trovò un equilibrio un po’ sgangherato con Lionel Zimbler, che lo accompagnò per qualche stagione sul circuito maggiore: Zimbler però aveva sempre la faccia di uno che stava per arrendersi, e, ogni volta che le telecamere lo stuzzicavano nel corso delle partite del suo pupillo, il povero coach sembrava chiedere aiuto, con lo sguardo perso nel vuoto. Paire fu convocato solamente un paio di volte in Coppa Davis, probabilmente per sbaglio, e nel 2021 fu addirittura escluso dalle Olimpiadi dalla sua federazione per la violazione del codice etico. Non è mai stato un tennista popolare, perché il pubblico faceva fatica a capirlo, e lui aveva paura di farsi trascinare: perché poi quando vieni trascinato dalla torcida devi rispettare i complici della tua rimonta, devi concludere il lavoro con una vittoria, e Benoit, temendo di non farcela, prendeva la scorciatoia e decideva di respingeva il tifo.

Il masochismo e l’autodifesa di un uomo arrabbiato: per due anni consecutivi (2012 e 2013) uscì dal Centrale di Bercy sommerso dai fischi della sua gente: “Sì, quello è stato un momento molto duro” racconta proprio Paire. “Credo che le cose siano cambiate quando ho giocato in Davis contro la Spagna, a Lille, nel 2018. Nella stagione successiva ho giocato il mio miglior Roland Garros. Ammetto di aver paura di non poter mai più provare emozioni del genere. Per esempio, quando ho battuto Pierre-Hugues Herbert in cinque set al secondo turno…Sul match point ho sentito qualcosa di molto forte. Era come se fossi qualcun altro, una sensazione mistica. Poi, negli ottavi contro Kei Nishikori (sul Suzanne Lenglen), il pubblico era impazzito. Sembrava di essere a una partita di calcio. Pochi mesi dopo, a Bercy- torneo sempre complicato per me- ho perso contro Gael Monfils, ma ho lasciato il campo con un’ovazione. La situazione era finalmente cambiata”

LA CRISI POST-LOCKDOWN, L’USCITA DAI 100 E LA COPERTA DI LINUS

Benoit aveva cominciato il 2020 con una finale ad Auckland, ma poco dopo arrivò il lockdown e il talento francese si piantò per sempre: toglietegli tutto, ma non la sfida con il pubblico. Toglietegli tutto, ma non la tensione del palcoscenico. Toglietegli tutto, ma non il piacere del viaggio. I giudizi delle tribune, peraltro, rappresentavano un piccolo freno alle sfuriate di Paire, che con le porte chiuse si fecero sempre più frequenti e sempre più violente.

La classifica, rimanendo congelata, rinviò il baratro ma solamente di qualche mese: nell’estate del 2022 uscì dopo una vita dalla top 100 del ranking mondiale, per non ritornarci mai più. Scendeva in campo, buttava via qualche palla, tentava di provocare l’avversario, litigava da solo, fotografava i segni delle chiamate dubbie e quelli del suo disagio, e poi se ne andava: era ufficialmente diventato la parodia di sé stesso. Gli sponsor lo abbandonarono, la barba (la cui lunghezza era direttamente proporzionale all’intensità delle sue scenate) si trasformò nella coperta di Linus, sempre più corposa, come una specie di corazza che nascondeva lo sguardo, la delusione e i pensieri di un ex giovane protagonista del tennis vero.

Paire si lasciò andare, adattandosi con umiltà e ironia alla nuova vita di turista di serie B di un tour di serie B: i reportage dai fast food e i video delle sue sfuriate, che avevano contraddistinto la prima parte della carriera, persero però la sfumatura sarcastica della provocazione e diventarono sempre più ridicoli, perché alla fine il tempo passa per tutti. Quando un talento smarrisce la pietà verso sé stesso rischia di diventare un fenomeno da baraccone, e quel tennista arrabbiato si trasformò in un viandante malinconico.

IL GIOVANE BENOIT E L’ULTIMA SMORZATA

Non era più il giovane Paire. Quello che ad Auckland, nel 2016, fermò improvvisamente la partita con Rosol, chiedendo- serissimo- l’intervento immediato del supervisor: “Qual è il problema, Benoit?”

“Il problema è che questo è un campo di merda, è più veloce di Wimbledon. E’ impossibile giocare così”.

Oppure quello che a Bercy, nel 2015, si divertì con Gilles Simon (a proposito di nemesi), scherzandolo con il colpo più elegante della carriera: una stop volley di rovescio che gli accarezzò il naso, prese in giro l’avversario, e poi tornò indietro, verso la bacchetta magica, come un boomerang morbido, regalando agli spettatori televisivi lo slow motion esteticamente più appagante.

Oppure quello che, nel momento clou della sua carriera sportiva, non riusciva a trovare la forza per superare la rottura improvvisa con la fidanzata storica: “Ero ancora innamorato, lei mi mancava molto. Per questo il mio migliore amico Jean-Charles ha trascorso tutto il 2018 in giro per il circuito insieme a me. Non potevo restare solo. Non ho dato il massimo in alcune partite perché mi mancava la mia ex. Pensavo a lei mentre giocavo. Il mio amico era lì con me per rimettermi in carreggiata. Avevo bisogno di parlargli, di dirgli cosa mi succedeva. Se non ci fosse stato lui, non avrei mai trovato la forza per giocare i tornei. Non riuscivo a sopravvivere sul campo da tennis, perché la mia mente era altrove. Volevo riprovarci con lei, dare il massimo, ma non era possibile. Allora ho comprato un album da disegno. Quasi tutti i miei tatuaggi sono disegni di quell’album. Leggevo libri su quello che mi era successo. Ascoltavo musica triste. La mia playlist era incredibile. Sono finito ancora più in basso”.

O, ancora, quello che, sempre nel 2015, dopo un paio di sconfitte sull’erba, si stufò dei prati e scappò a Milano, sull’amata terra battuta, per giocare un torneo challenger (ai tempi era numero 67 del ranking ATP), nonostante mancassero pochi giorni a Wimbledon. Benoit, proprio come il suo idolo Marat Safin, detestava l’erba, perché non gli concedeva il tempo di creare, o almeno questa era la sua sensazione: una sensazione, ovviamente (ma cosa ve lo dico a fare), sbagliata. Wimbledon è stato infatti l’unico torneo del Grande Slam in cui Paire ha raggiunto per due volte gli ottavi di finale, giocando spesso- e quasi controvoglia- un tennis sontuoso: la splendida vittoria nella sfida tra i migliori talenti del circuito, al secondo turno del 2012, contro Alexandr Dolgopolov, rappresenta verosimilmente uno dei quadri- capolavoro di tutta la carriera. 

Arrivò a Milano in Porsche e infradito, accontentandosi di una wild card per il torneo di qualificazione, al fianco di ragazzi che non avevano nemmeno una classifica ATP e ripartì, qualche giorno dopo, sempre in Porsche e sempre in infradito, dopo la sconfitta nei quarti di finale con un brasiliano dal doppio cognome, con il trattino in mezzo, e alla fine torniamo sempre lì. Alla solidità dei rematori da terra rossa, alla solidità dei cognomi doppi, la nemesi per eccellenza del talento puro. Mentre stava facendo rientro in Francia pubblicò una foto su Instagram, inquadrando il volante della macchina e la colonna sonora di quel viaggio, dimenticandosi però del dettaglio del contachilometri, che segnava una cifra molto vicino al 200.

Sono passati quasi dieci anni e Benoit Paire è rimasto un mago, ma un mago vicino alla pensione: la giacca è sbagliata, il coniglio che spuntava dal cilindro è stanco e i tifosi che si lasciavano stupire dai suoi trucchi, ormai, sono più vecchi di lui. 

Attualmente è il numero 141 del mondo e non gioca da un mese e mezzo, da quando si è ritirato, nel challenger di Madrid, ad un passo dalla sconfitta con uno spagnolo, tale Oriol Roca Batalla, e non può essere un caso.

Tornerà- perché prima o poi tornerà- per un ultimo giro, per l’ultima smorzata, per un ultimo trucco, e noi ci fingeremo stupiti, che non ci costa niente farlo sentire una star.

Nel frattempo ci concediamo il lusso di immaginarlo sulla Porsche, con le infradito, che corre alle due di notte verso un Challenger sperduto che non esiste. Senza una meta, senza una strada, con gli occhi lucidi, la barba incolta, una playlist come si deve, e la sigaretta.

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