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L’analisi della sconfitta, questa volta, la fa la destra

L’analisi della sconfitta, questa volta, la fa la destra. Cosa ci dicono le elezioni in Sardegna e cosa […]

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L'analisi della sconfitta, questa volta, la fa la destra

L’analisi della sconfitta, questa volta, la fa la destra. Cosa ci dicono le elezioni in Sardegna e cosa può succedere a livello nazionale

Per le persone che si sono interessate solo negli ultimi due anni alla politica, la giornata del 25 febbraio 2024 ha segnato una grande novità. Per la prima volta, dal 2022, il centrodestra ha perso delle elezioni regionali. La Sardegna passa dal governatore leghista Solinas all’esponente pentastellata Alessandra Todde, sostenuta anche dal Partito Democratico e altre liste vicine al centrosinistra. È la prima vittoria di peso di quello che è stato da più parti definito come il nuovo campo largo.

Cosa ci dicono queste elezioni in Sardegna

Il primo dato da rilevare è che questo centrodestra non è imbattibile. Può sembrare addirittura una ovvietà – specialmente se affermata in democrazia – ma non in questo caso. La destra italiana, formata dal trittico inossidabile composto da Forza Italia e Lega (alla base) e Fratelli d’Italia (al vertice) sembrava assolutamente inarrestabile e anche a queste elezioni regionali sarde partiva con i favori del pronostico e degli istituti demoscopici. Questo, nonostante l’esperienza tutt’altro che esaltante di Solinas (fortemente inviso agli isolani e nel mezzo di una tempesta giudiziaria) e la scarsa – se non scarsissima – popolarità del candidato meloniano, Paolo Truzzu, attuale sindaco di Cagliari.

Nonostante i battibecchi interni al centrodestra (specialmente tra Meloni e Salvini), dei candidati decisamente poco graditi e un cambio in corsa, la compagine conservatrice partiva con circa cinque punti di vantaggio – stando ai principali istituti demoscopici – rispetto all’avversaria principale, Alessandra Todde. Alfiere pentastellato in Sardegna, è riuscita a far convergere il voto dei democratici. Poi, alla prova del voto, si è manifestato quello che si definisce “effetto underdog”, dove l’elettorato dello schieramento che parte in svantaggio si mobilita nella fase finale di campagna e, soprattutto, si reca alle urne con maggior propensione. Dall’altro lato, invece, Truzzu si è ritrovato orfano di un importante numero di voti, persi nel grande calderone dell’astensionismo, ed è stato ab-battuto dagli stessi cagliaritani.

La gestione della candidatura e della campagna è stata, a conti fatti, estremamente fallimentare. Pur avendo tutte le carte in regola per bissare il successo, il centrodestra si è aggrovigliato su sé stesso e ha lasciato campo libero al campo largo.

Per la sinistra c’è speranza

Ma allora, cosa significa, a conti fatti, che il centrodestra non è imbattibile? Nella pratica politica e nell’ambizione e idee dell’elettorato, specialmente d’opposizione, c’è speranza. Una delle chiavi emotive per mobilitare l’elettorato è proprio questa: dare l’idea che un cambiamento sia possibile, che lo si possa ottenere sì con il mantenimento delle promesse elettorali, ma anche, conditio sine qua non, attraverso la vittoria nelle urne.

Dopo anni di dominio incontrastato della destra, la Sardegna lancia un segnale. Non si tratta di una inversione di tendenza, bensì fa capire che la competizione c’è, è possibile. La sfiducia, che probabilmente continuerà ad albergare in tantissimi elettori d’opposizione, viene compensata da una piccola iniezione di speranza. Una “luce”, per l’elettorato progressista, che si proietta direttamente sull’Abruzzo.

Aumenta la posta in palio del 10 marzo, con le elezioni regionali dell’Abruzzo

E dopo aver sovvertito il pronostico iniziale, il campo largo (anzi, larghissimo, perché includerà anche dei pezzi del centro politico) cercherà di far cambiare colore anche all’Abruzzo, passando dal blu al giallo-rosso.

Con date così ravvicinate tra un’elezione e l’altra, il Movimento 5 Stelle e il Partito Democratico potranno provare a sfruttare la scia positiva del turnover sardo per rendere più credibile l’idea che un cambiamento è possibile.

È ovvio che ogni elezione, locale o regionale, fa storia a sé, avendo al suo interno tanti elementi legati all’esperienza territoriale che non possono essere misurati o validati con le analisi che vengono eseguite per la politica nazionale. È però vero che l’eco di un risultato così sorprendente come quello sardo, potrà generare un effetto di mobilitazione importante. In primis, per l’elettorato di centrosinistra, che vede la possibilità di generare una nuova onda rossa e arrivare alle europee (vero turning point di questo 2024) con il vento in poppa. Dall’altra, lo stesso elettorato conservatore potrebbe ri-attivarsi per il timore di perdere un’altra Regione. Tra gli effetti, quindi, del risultato delle elezioni sarde, rientrerà quello di stimolare la partecipazione per le elezioni regionali in Abruzzo.

Chiamata a raccolta da un lato, minimizzazione del risultato sardo all’altro

Questo è il primo elemento su cui si gioca la prossima partita, distante appena due domeniche. Il campo largo/larghissimo parte in svantaggio ma i venti che tirano dall’isola dei Nuraghe possono risvegliare, di colpo, la campagna elettorale. Per la coalizione d’opposizione – a questo giro guidata dal Partito Democratico – l’arduo compito di mobilitare i disillusi e cercare il voto degli astenuti. Cosa ancor più importante, sarà riuscire a “mantenere” gli elettori del 2019 che, tra centrosinistra e Movimento 5 Stelle, ottennero oltre il 50% delle preferenze. Si parla di una era politica fa ma, stando agli ultimi sondaggi, i rapporti di forza sono quasi identici all’ultima tornata, dove vinse il meloniano Marsilio. Adesso, contro D’Amico, la posta in palio cresce. Se il campo larghissimo dovesse riuscire a sfondare la resistenza dell’attuale coalizione, si aprirebbero scenari particolarmente dinamici sul piano nazionale.

La chiave risiederà ancora una volta nella capacità di mobilitare l’elettorato disilluso o scontento, a cui deve appellarsi, con maggior forza, il candidato democratico, D’Amico. Dall’altra parte, il centrodestra necessita di abbassare la tensione e minimizzare l’impatto della sconfitta sarda, per evitare che l’aria nazionale pervada quella del verde Abruzzo. Attivazione da sinistra contro disinnesco da destra: sarà questa la chiave di volta per comprendere chi si troverà a governare per i prossimi cinque anni.

La maggior difficoltà per il principale candidato d’opposizione riguarda l’inserimento dei partiti di centro nel proprio schieramento. Se, ormai, si nota come il feeling tra Partito Democratico e Movimento 5 Stelle sia più che fattibile, andando a toccare fette compatibili d’elettorato, il discorso cambia quando si va ad introdurre nella formula elettorale un corpo estraneo come quello centrista, che spesso e volentieri vira verso posizioni fortemente liberali. Ecco che la grande sfida per la sinistra, o centrosinistra o campo larghissimo, passa dalla credibilità di un impianto narrativo e programmatico solido e coerente.

Trovare una quadra in una dimensione già rilevante e importante come quella regionale sarebbe un notevole passo in avanti per le forze d’opposizione. Dall’altra parte, la destra deve continuare a “fare la destra”. Nonostante Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia governino quasi ovunque, dal nazionale al regionale, la “stanchezza” fatica a farsi sentire. Le stesse elezioni sarde, al netto della vittoria progressista, mostrano come il centrodestra sia tuttora la coalizione dominante nel Paese (le liste a sostegno di Truddu hanno staccato di 6 punti quelle che portavano Todde come presidente).

La Lega alla finestra

In ottica delle elezioni europee di giugno, Matteo Salvini rimane alla finestra. Competendo nello stesso spazio di Fratelli d’Italia, il leader del carroccio sta cercando, da ormai alcuni mesi, di riposizionarsi verso l’estremo destro dello scacchiere politico italiano, per via della moderazione, tipicamente governista, del primo partito della coalizione.

La sconfitta in Sardegna può essere definita come la prima vera sconfitta di Giorgia Meloni da quando è al governo. Il suo partito non è praticamente mai sceso al di sotto del 27-28% e non ha mai abbandonato, neppure per un istante, la prima posizione in solitaria. Proprio dall’inizio del governo Meloni, i sondaggi hanno mostrato una estrema staticità, segno di una stabilità politica che non poteva che favorire la prima premier donna del Paese. Ora, però, il primo vero scricchiolio. Lo spiffero d’aria fredda che colpisce. E come sempre, quelli che tirano in casa sono i peggiori.

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