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Sostenibilità: c'è chi dice «no deal»



Dalla Scozia alla Polonia, dalla Germania al Canada... Sono molti i Paesi che tornano sui loro passi. Perché gli obiettivi «verdi» che volevano trasformare l’approvigionamento energetico - e dunque l’economia - del mondo occidentale si stanno frantumando contro la realtà. E la «carbon neutrality», troppo onerosa e poco fattibile, è sempre più rimandata.


È più facile che il mostro di Loch Ness si metta in posa per una foto ricordo che la Scozia riesca a raggiungere gli obiettivi della riforma verde, fissati dal governo in occasione del summit sul clima dell’Onu a Glasgow nel 2021. Il primo ministro dell’epoca, Nicola Sturgeon, annunciò che avrebbero ridotto le emissioni di gas serra di ben il 75 per cento entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990. «Ambizioso e difficile» definì il progetto la premier. Oggi dovrebbe aggiungere un altro aggettivo: fallimentare. A poco più di tre anni di distanza, il ministro scozzese della Net Zero ha alzato bandiera bianca affermando che il piano è ormai «fuori portata». Saltato il target finale, il Paese rivedrà i traguardi della lotta all’inquinamento ogni cinque anni. Ancor più duro è stato il Climate Change Committee, un organismo indipendente nominato dal Parlamento britannico, che ha affermato che i mirabolanti impegni della Sturgeon «non sono più credibili». E se «Braveheart» è stato messo ko da una marmitta borbottante significa che la situazione è davvero grave, e non solo dalle parti delle Highlands.

In Europa, nonostante i sorrisi di circostanza della candidata Ursula von der Leyen, volano i calci sotto i tavoli dei Ventisette. Il Green deal, il programma che prevede la carbon neutrality entro il 2050, è un vampiro che continua a succhiare soldi senza portare apprezzabili risultati. Tanto che «sette samurai» (Finlandia, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Irlanda, Austria e Slovacchia) hanno sguainato le spade contro la concessione di nuovi finanziamenti per accelerare la conversione industriale e contrastare l’effetto attira investimenti dell’Inflation Reduction Act varato da Joe Biden, che offre più garanzie e infrastrutture di quel che la Commissione europea promette da anni. Insomma: va bene farsi male da soli, ma suicidarsi proprio no... La stessa «regina d’Europa», la Germania ormai denuclearizzata, ha annunciato che si prenderà un po’ di tempo per approvare i fin troppo rigorosi standard di isolamento termico degli edifici dopo le proteste della grande edilizia che ha accusato il contraccolpo prima della pandemia e poi della guerra in Ucraina, e che ora non ha proprio voglia di indossare il «cappotto» in vista dell’estate. Nel frattempo, sempre Berlino ha pure annacquato il disegno di legge sulla graduale eliminazione dei sistemi di riscaldamento a petrolio e gas dei condomini, ritenuto troppo oneroso soprattutto per le fasce deboli.

Incalzato dall’inflazione e dai rischi di un default del sistema industriale, il teutonico rigore dell’esecutivo Scholz si è attrezzato di levantino ingegno e sta ora provando a liberare 8 mila aziende tedesche dal cappio green dell’Ue ritoccando i manuali di diritto commerciale e allargando da 250 a 500 il numero massimo di dipendenti che qualificano una «media impresa», sì da tenerle fuori dai parametri di Bruxelles. Un trucchetto da leguleio che farebbe la felicità del dottor Faust. E luciferina è anche la mossa di Varsavia che ha deciso addirittura di fare causa all’Ue per annullare una serie di direttive che sarebbero punitive per il suo mercato soprattutto in relazione alla riduzione delle emissioni di CO2 in tempi «non compatibili con l’organizzazione del sistema nazionale». Sotto la spinta dei sindacati minerari, la Polonia ha altresì deciso di mandare in fumo l’impegno di liberarsi dalla dipendenza dal carbone, che resta una delle poche risorse naturali capace di sostenere l’economia con un bacino di occupati di oltre 90 mila operai, che lavorano direttamente nelle miniere, e un export che nel 2022 ha raggiunto gli 11,5 milioni di tonnellate. Analoghi sentimenti dall’altra parte del continente. Lo stesso «petit Napoléon» dell’ambientalismo duro e puro, il presidente francese Emmanuel Macron si è reso conto di essersi avvicinato pericolosamente alla sua Waterloo e così ha innestare la retromarcia. A parole continua a sostenere il Green deal ma, nei fatti, ha chiesto «una pausa normativa europea» sui vincoli ambientali che stanno diventando troppo asfissianti.

«Stiamo attuando ciò che abbiamo deciso, ma dobbiamo smettere di aggiungere altro», ha detto il capo dello Stato, lanciando una frecciata alla Von der Leyen in ansia da campagna elettorale. «Il rischio che corriamo è, fondamentalmente, quello di essere i migliori in termini di regolamentazione e i peggiori in termini di finanziamento». I denari, in effetti, non bastano mai. Forse Macron ha preso pure coscienza che regole uguali per economie diverse sono la strada più breve per il crac dell’Ue. Sulla legge contro il consumo del suolo, per esempio, il presidente si è dimostrato più realista del re. Pur avendo nel proprio ordinamento una norma di questo tipo, la Francia si è ben guardata dal battagliare in sede Ue per imporla a livello comunitario (come invece sta cercando di fare per quella sull’aborto come diritto costituzionale) semplicemente perché è un’esigenza tutt’altro che condivisa dagli altri.

Imporre l’azzeramento del consumo del suolo entro il 2050 significherebbe far saltare il motore dell’intero continente con disastrosi effetti sulla demografia e la ricchezza dei singoli Paesi. In Germania e in Italia il controllo dell’urbanizzazione è delegata ai Länder e alle Regioni, e quindi Roma e Berlino non avrebbero alcun interesse a subentrare in una materia tanto complicata. In Spagna manca invece quasi completamente una politica sullo sfruttamento del territorio e ognuno può, nei limiti, organizzarsi di conseguenza. Nei Paesi Bassi e in Olanda, invece, dove ogni centimetro di terra è strappato alle acque, un piano del genere viene ritenuto semplicemente irrealistico. La religione verde non scalda più i cuori nemmeno oltre l’Atlantico. Andrew Furey, il governatore di Terranova e Labrador, in Canada, ha attaccato a muso duro il premier Justin Trudeau sul progetto di decarbonizzazione soprattutto adesso che, al largo delle coste delle due province, è stato scoperto un giacimento da un miliardo di barili di petrolio. «Credo che siamo tutti d’accordo sul fatto che nei prossimi anni non ci saranno aerei elettrici o aerei a idrogeno» ha detto Furey. «Nell’attesa, l’industria del petrolio e del gas ha un ruolo da svolgere». Quindi: fateci scavare e zitti. Il presidente dell’Azerbaigian, l’autocrate Ilham Aliyev, è stato il più diretto di tutti. Dopo aver salutato i grandi della Terra riunitisi nella capitale Baku per parlare di lotta all’inquinamento e riduzioni dei combustibili fossili, ha battuto il pugno sul tavolo e ha ringhiato: «Il gas ce l’ha dato Dio e guai a chi ce lo tocca». Con buona pace di Greta Thunberg & friends.

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