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Ebrahin Raisi, la fine della storia di un «passacarte» diventato Presidente e uomo del terrore in Iran



Per capire il ruolo di Ebrahim Raisi nell’Iran di cui è stato presidente, è importante guardare al suo recente passato. Nel 1988 nel Paese ci fu uno dei più grandi massacri compiuti dalla Rivoluzione Islamica: trentamila prigionieri politici furono eliminati per ordine di una fatwa dell’Ayatollah Khomeini, che istituiva una «commissione della morte» formata da tre giovani magistrati. Uno di questi era l’allora mullah, poi ayatollah, quindi ministro della Giustizia del governo del presidente Rouhani e infine lui stesso presidente della Repubblica, ovvero proprio Ebrahim Raisi.

«È come se Adenauer avesse nominato ministro della Giustizia Eichmann», disse di lui l’ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata. Questo per dire che la figura politica di Raisi è sempre stata intimamente legata e dunque rispecchiava in pieno il volere della Guida Suprema Ali Khamenei, vertice di quella casta religiosa alle cui regole ogni presidente iraniano (e il resto del Paese) si è sempre allineato. Ma Raisi ha fatto di più, svolgendo un ruolo da passacarte degli ultras sciiti e sposando in pieno ogni scelta degli ayatollah, che dalla sua elezione in poi hanno progressivamente alienato Teheran dall’Occidente e lo hanno schiacciato su posizioni che definire conservatrici è un eufemismo.

Raisi è diventato presidente dell’Iran il 19 giugno 2021, dopo aver vinto l’ennesima elezione presidenziale storicamente poco competitiva: in Iran, infatti, un candidato presidente deve per legge ricevere il benestare della Guida Suprema, il che rende impossibile la candidatura di figure realmente contrarie al regime. Molti iraniani riformisti si sono difatti rifiutati di partecipare anche a quest’ultima elezione poiché ampiamente considerata scontata, compreso l’ex presidente Rouhani su cui persino Barack Obama aveva riposto fiducia al tempo degli accordi sul nucleare (poi naufragati). L’affluenza alle urne per l’ultima elezione è stata di conseguenza del 48,8%, la più bassa dall'istituzione della Repubblica Islamica dell’Iran nel 1979.

La novità del panorama politico che si staglia all’orizzonte adesso, dopo la scomparsa di Raisi e del ministro degli Esteri Hossein Amirabdollahian insieme al loro entourage, è dunque quella di un possibile sconvolgimento alla luce del sole della gerarchia di potere in Iran. Difatti, come scritto solo poche settimane fa su Panorama, specialmente dopo la morte del generale iraniano Qassem Suleimani – ideatore dell’Asse della Resistenza e della strategia di accerchiamento progressivo di Israele – i Pasdaran o Guardiani della rivoluzione, sembrano aver perso progressivamente interesse circa le avventure belliche per procura congeniate dagli ayatollah con cui condividono il potere temporale.

Avventure che, invece, hanno contraddistinto l’ultimo decennio del Medio Oriente, senza però mai incidere significativamente o positivamente nel ridisegnare la geopolitica regionale e alleviare le pene della popolazione, che patisce una perdurante crisi economica. Lo stesso attacco missilistico «gentile» contro Israele, avvenuto nella notte tra sabato e domenica 14 aprile 2024 come rappresaglia per il bombardamento del consolato dell'Iran a Damasco, ne è ampia dimostrazione: i Pasdaran, forse in aperta opposizione alla volontà della Guida Suprema, non hanno inteso portare un’offensiva micidiale contro «i diavoli israeliani», ma hanno scelto la de-escalation e la collaborazione con gli Stati Uniti, protettori di Israele.

Semmai, la casta militare dei Pasdaran di nuova generazione ha scelto di dedicarsi agli affari interni, ed è sulla concentrazione del potere nelle loro mani che si gioca la prossima elezione presidenziale. Questo perché i Guardiani della Rivoluzione, come sono chiamati appunto i Pasdaran, si sono costituiti nel tempo come un corpo paramilitare a sé stante rispetto all’apparato di Stato, e oggi detengono il cuore del potere economico persiano. Quindi, implicitamente rappresentano una sorta di contropotere alle forze armate e alle stesse istituzioni emerse dalla Rivoluzione khomeinista. È a loro e alle mosse delle prossime settimane, dunque, che bisognerà guardare per comprendere quanto questo lutto nazionale si potrà trasformare in una transizione che potrebbe condurre l’Iran verso nuovi lidi e prospettive politiche.

Se così fosse, se davvero i Pasdaran approfitteranno della morte del fedelissimo di Khamenei per raggiungere il loro obiettivo, lo capiremo presto. Di certo, gli ayatollah iniziano a rappresentare un ostacolo alla loro idea di governo. I Guardiani, infatti, temono che l’inarrestabile ondata di proteste contro le restrizioni e vessazioni che i religiosi impongono al popolo, possa nuocere sul serio al processo di consolidamento della loro casta quale unica referente del potere assoluto in Iran. Inoltre, il fatto di aver messo ormai le nuove generazioni di iraniane e iraniani contro le loro stesse istituzioni è un fatto serio, che va gestito con cautela.

Certo, si può sostenere che la morte di Raisi sia stata davvero accidentale, che ci sia stata soltanto la «mano di Dio» dietro allo schianto nelle montagne al confine con l’Azerbaijan (incidenti simili erano già capitati, anche ad Ahmadinejad poco più di un decennio fa). Del resto, l’elicottero su cui viaggiava il presidente era così vecchio che era appartenuto addirittura allo Scià, e andava sostituito con urgenza (ma le sanzioni americane avevano impedito l’aggiornamento del parco velivoli dello Stato). Eppure, se a pensar male ci si azzecca, immaginare un sabotaggio è qualcosa che – a questi livelli – non può essere scartato a priori.

A chi conviene la morte del presidente iraniano forse più fedele di sempre agli ayatollah? Certo, verrebbe la tentazione di puntare subito il dito contro i due grandi nemici della Repubblica islamica, Israele e Stati Uniti. Esclusi questi ultimi, che non avevano motivo di destabilizzare l’Iran proprio sotto elezioni, Israele avrebbe avuto i suoi interessi: tuttavia, per Gerusalemme sarebbe stata semmai la Guida Suprema e non il presidente un obiettivo. Pertanto, se restiamo al contesto già in ebollizione dello scontro di poteri in atto all’interno della compagine di governo, più di un elemento indica che a godere della sua scomparsa saranno proprio i Pasdaran. Che ora possono provare a imporre un loro candidato alla presidenza.

Se nulla cambierà, invece, se nessuno approfitterà di questo evento improvviso e la Guida Suprema Khamenei investirà davvero il figlio Mojtaba del ruolo di presidente (cui quest’ultimo tiene molto ed è difatti considerato la «eminenza grigia» del regime), sarà la dimostrazione che era bene attenersi alla versione ufficiale, quella appunto dell’incidente aereo. Dopodiché, secondo la costituzione iraniana, alla morte del presidente in carica si apre un periodo cosiddetto «dei Cinquanta giorni», durante i quali inizia l’organizzazione di nuove elezioni, con il vicepresidente che assume temporaneamente la carica di capo del governo facente funzione. In questo lasso di tempo, il vicepresidente guida un comitato che sovrintende alla preparazione del voto, insieme con il capo della magistratura e lo speaker del parlamento.

La grande incognita, ovviamente, non è però tanto nella lista dei candidati – che, come detto, deve essere approvata dalla Guida Suprema – ma semmai come risponderà la società civile iraniana a questa novità, in un momento in cui il Paese vive una crisi economica che attanaglia la maggioranza della popolazione, mentre il popolo guidato dalle donne contesta il concetto stesso di teocrazia. Ne sapranno approfittare? E come?

Per la stessa ragione che muove i Pasdaran, il popolo potrebbe paradossalmente guardare proprio a questi ultimi, sia pur obtorto collo, quali interlocutori indispensabili per ottenere un «regime change» che elimini una volta per tutte lo strapotere della Guida Suprema, e consenta una prima destrutturazione – sia pur parziale – del potere finora assoluto dei religiosi. Questo perché sono proprio i laici Pasdaran gli unici referenti che potrebbero porre fine all’insensata brutalità del regime teocratico che mette a morte arbitrariamente i manifestanti per «atti contro Dio», per esempio cessando di applicare le volontà dei religiosi sciiti in tal senso.

È appunto la presenza in cima alla piramide di potere degli ayatollah ciò che rende ancora impossibile all’Iran diventare un Paese rispettato, almeno in Occidente. E se una piena capacità nucleare cambierebbe la sostanza e gli equilibri in chiave esterna, alla fine è chi decide la politica interna di un Paese a determinarne la storia. Anche per questo motivo, le prossime elezioni saranno cruciali per il futuro dell’Iran e in fondo dell’intero Medio Oriente.

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