Viene da parafrasare Mao Zedong, che con una nuotata nel fiume Yangtze lanciò una sfida al mondo: «Grande è la confusione sotto l’ombrellone», ma a differenza di quello di cui era convinto il Grande timoniere, la situazione è tutt’altro che eccellente. L’Italia rischia di perdere la stagione balneare, cioè un introito turistico da una sessantina di miliardi di euro, il 3 per cento del Pil. Ben che vada si avranno rincari dal 50 all’80 per cento dei prezzi per quest’estate e di certo molti dei 300 mila stagionali resteranno in cerca di occupazione. La ragione è palmare: visto che i gestori dei lidi non sanno se potranno portare avanti la loro impresa e se, una volta che fossero costretti a lasciare la concessione, saranno indennizzati degli investimenti fatti, tendono da una parte a massimizzare gli incassi e dall’altra a non spendere.
Il caos è assoluto. Incombe sui nostri litorali la direttiva Bolkestein concepita nel 2006, entrata in vigore nel 2009, ignorata da tutti i governi che sono andati avanti di proroga in proroga delle concessioni balneari. L’esecutivo Conte 1, col ministro del Turismo Gian Marco Centinaio (Lega, attuale vicepresidente del Senato), una legge l’ha fatta rendendo valide tutte le concessioni in essere al 2019 fino al 2033. Mario Draghi, per obbedire alle pressanti richieste di Bruxelles e mettere il Pnrr al riparo da eventuali ripicche comunitarie, ha sancito che le concessioni dovevano essere revocate il 31 dicembre scorso e obbligatoriamente andavano messe all’asta. Il governo Meloni, dando un’interpretazione letterale della Bolkestein, ha avviato la mappatura delle coste per stabilire quanti chilometri di litorali sono in concessione. In attesa di ultimare il censimento affidato a un tavolo tecnico, ha prorogato le licenze fino alla fine di quest’anno con possibile sforamento di ulteriori 12 mesi. Sulla questione è intervenuto anche il presidente della Repubblica. Sergio Mattarella di fatto ha sollecitato l’applicazione puntuale della direttiva europea. E un paio di settimane fa il Consiglio di Stato con una sua ordinanza ha dichiarato decadute le concessioni, ha imposto ai Comuni di indire le gare e ha di fatto sconfessato l’operato dell’esecutivo. Nelle tasche dei turisti l’impatto dell’annosa confusione sulla normativa Ue significa l’esborso di alcune centinaia, se non migliaia, di euro in più per avere un posto all’ombra.
A Fregene un ombrellone e due sdraio si pagano in media sui 30 euro al giorno, in Versilia il noleggio costa 50 euro, a Rapallo sui 40, a Rimini bastano 25 euro, a Lignano ce ne vogliono 28. Ora sarà difficile trovarli al di sotto dei 70 euro. Ma questi sono prezzi popolari, perché alle Cinque Vele di Marina di Pescoluse nel Salento non bastano mille euro al giorno, Flavio Briatore al Twiga di Forte dei Marmi si accontenta di 600 euro al dì, ma offre la tenda araba, al Lido di Venezia l’Excelsior costa sui 550 euro mentre al Nikki Beach in Costa Smeralda chiedono 400 euro, ma regalano il Vermentino. E sono i prezzi della scorsa stagione, perché per quella che si va a inaugurare sui listini c’è un punto interrogativo. A questi livelli il rincaro medio dovrebbe essere tra il 15 e il 25 per cento, ed è già cospicuo. Sempre che gli stabilimenti balneari decidano di aprire. Durante la manifestazione del 10 aprile scorso a Roma, con migliaia di operatori in piazza, il presidente della Fiba-Confesercenti Mauro Rustignoli lo aveva annunciato: «Se non fanno una legge che ci tutela, che mette ordine al caos sulle aste e ci assicurano i risarcimenti siamo pronti a tenere le spiagge chiuse». Peraltro le bizzarrie di questa primavera non hanno consentito di fare le prove generali della «stagione» che di solito esordisce attorno alla Pasqua.
La linea rossa è fissata al 12 giugno e le previsioni non sono buone: tra governo e balneari potrebbe verificarsi una frattura insanabile che fa saltare la stagione. Con qualche strascico politico all’interno della maggioranza. Lega e Forza Italia sono totalmente con gli operatori del settore, i meloniani sono preoccupati anche dei rapporti con Bruxelles. Per quella data - subito dopo le europee - è stata convocata a Palazzo Chigi una «riunione ristretta del tavolo tecnico consultivo sulle concessioni demaniali marittime con Conferenza delle Regioni, Agenzia del demanio e ministeri competenti in materia». Lasciano fuori dalla porta le associazioni (sono una ventina di sigle, alcune molto locali) che rappresentano circa 30 mila imprese del settore e che invece finora avevano sempre partecipato al tavolo tecnico. La ragione? Probabilmente la necessità di avviarsi a un compromesso con l’Unione europea che potrebbe risultare scomodo per i balneari. Il ministro per i rapporti con l’Europa Raffaele Fitto (FdI) non ha mai fatto mistero che l’applicazione della Bolkestein ai lidi è una delle condizioni per continuare a trattare con Bruxelles su Pnrr e patto di stabilità. Potrà apparire esagerato, ma le nostre spiagge pesano quanto il Mes, il Meccanismo europeo di stabilità, nell’opinione degli eurocrati.
Ad agitare le acque ci sono ora centinaia di ricorsi che i gestori dei lidi stanno facendo ai Tar, i Tribunali amministrativi regionali. In Versilia - dove sono partite le prime aste-– il 70 per cento dei gestori si appella ai giudici amministrativi, lo stesso in Romagna. Proprio da un Tar, quello di Bari, è venuta una smentita del Consiglio di Stato. «I giudici pugliesi anno riconosciuto illegittima la procedura di gara adottata dal comune di Monopoli per 21 stabilimenti, sostenendo che le gare non servono e che le proroghe delle concessioni sono legittime» spiega Fabrizio Licordari, presidente di Assobalneari, che rappresenta oltre un terzo delle imprese ed è aderente a Confindustria. «Per noi è un pronunciamento positivo, ma a questo punto è indispensabile che il governo si adoperi per una normativa che metta fine alla confusione. In sede comunitaria abbiamo avviato un dialogo per convincere Bruxelles di due cose: si è dimostrato che la “risorsa spiagge”non è scarsa perché la mappatura condotta dall’esecutivo - e ignorata dal Consiglio di Stato - dice che è occupato solo il 30 per cento della costa, e dunque la Bolkestein non è applicabile; la direttiva, peraltro, si occupa dei servizi e non dei beni e noi siamo concessionari di beni. Però in una simile incertezza operare è impossibile».
Da qui parte Bettina Bolla, che guida il sindacato di categoria Base Balneare e Donnedamare per sottolineare: «Non capisco come si possa ampliare la concorrenza se le concessioni restano sempre le stesse. La verità è che vogliono sostituire noi balneari con le multinazionali. E non ci dicono neppure se ci indennizzeranno una volta che dovessimo perdere le aste». Questo è un nervo scoperto perché tanto l’articolo 49 del Codice della navigazione - di cui i balneari chiedono l’abolizione – quanto l’articolo 12 della Bolkestein non prevedono indennizzi a favore di chi esce dalla concessione. «Là dove ci sono state le prime aste» sostiene Fabrizio Licordari di Assobalneari «le concessioni sono finite, come a Jesolo, dalle imprese familiari alle holding e le tariffe sono aumentate del 50 per cento. Dove prima operavano cinque famiglie, oggi a gestire i lidi c’è soltanto un gruppo finanziario». L’Unione europea, peraltro, ha già fatto sapere che non va bene la mappatura quantitativa - cioè quanti chilometri sul totale delle spiagge sono in concessione - ma che vuole quella qualitativa. A Bruxelles - o forse ai grandi tour operator che guardano a questa partita-– interessano la Versilia, la Romagna, Portofino, la Sardegna, la Sicilia e il Veneto. Per mettere le mani su un business assai profittevole.
La prova? In Spagna, dopo decenni di resistenza alla Bolkestein del governo iberico, il socialista Pedro Sánchez ha detto sì alle aste. Così a Formentera sono spariti i chiringuitos storici. Locali arcinoti, come il Cala Saona e il Lucky, saranno smantellati perché sono arrivati i gruppi turistici del Nord Europa a prendersi le spiagge.