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Caos Genova: la Superba retromarcia



L’inchiesta della procura del capoluogo ligure, culminata con l’arresto del presidente Giovanni Toti, porta con sé un rischio: fermare la «rivoluzione» che ha scosso la città da un immobilismo durato decenni.

A lanterna de Zena lampeggia nella notte, indicando la rotta ai navigatori. Il bagliore intermittente viene e va, come le residue certezze. Paragonano la botta giudiziaria al crollo del Morandi. Un sacrilegio che rende l’idea. Il governatore ligure, Giovanni Toti, ai domiciliari. È indagato per corruzione, assieme a fedelissimi e imprenditori. I magistrati genovesi gli contestano rapporti disinvolti: giganteschi favori in cambio di quasi 75 mila euro di finanziamenti, «erogazioni liberali» come da regolare bonifico. Quisquilie, viste le supposte contropartite. Comunque sia, il copione ora prevede: frettoloso giacobinismo, bagnomaria processuale, preconcetta ignominia. Resta, però, l’ineludibile quesito manzoniano: fu vera gloria?

Mentre avanza lo strisciante sospetto: gli spettacolari arresti saranno usati per demolire la «rivoluzione arancione», giunta dopo stantio e inscalfibile dominio rosso. «Che cosa c’è di secondo?» domanda un turista tedesco a due ristoratori liguri, nello storico siparietto. «Torta di riso e prenderselo nel c... Torta di riso, finita!». Una battuta diventata l’inno della regione: da sempre la più mugugnona, scostante e immobile d’Italia. Fino all’aprile 2015. Toti, votatissimo europarlamentare azzurro e consigliere politico di Silvio Berlusconi, decide dunque di candidarsi a governatore nella perplessità generale. Colleziona cravatte, fuma troppo, ama cenare in compagnia. In quei giorni lo raggiungiamo nella declinante «Superba», incuriositi dall’impresa.

I tavolini del bar alle spalle di «via Venti», come chiamano qui via XX settembre, la strada delle compere, sono ancora vuoti. La primavera fatica ad arrivare. Toti, invece, sembra determinatissimo a non andarsene più. La sfidante è Raffaella Paita, adesso parlamentare di Italia Viva, detta «Lella», già assessore regionale dall’eterno Claudio Burlando. La tramontana soffia alle sue spalle. A Palazzo Chigi c’è l’onnipotente Matteo Renzi. Mentre addenta un triangolino di focaccia, il delfino del Cavaliere mostra però l’ultimo sondaggio di Alessandra Ghisleri, come da manuale del perfetto berlusconiano: «Il 72 per cento dei liguri è insoddisfatto degli ultimi dieci anni di amministrazione» dice a Panorama, sventolando in aria fogli pieni di tabelline. «Il Pd ha lottizzato tutto, il merito è scomparso, c’è posto solo per gli amici e gli amici degli amici. La riscossa del centrodestra parte da qui».

Possibile, ma improbabile. Toti invece spande sicumera: «Si gioca per vincere». Conquista subito i notabili del partito. Parla di listini, candidature e potentati come se avesse passato la vita a far quello, piuttosto che il celebrato giornalista di Mediaset. Lo storico hotel Bristol, dietro Palazzo Ducale, è il suo quartier generale. «La Liguria ha vissuto per un decennio ai margini. Ora è di nuovo al centro del dibattito politico». Lo accusano di essere un paracadutato. Lui eccepisce: «È meglio essere guidati da un’amministratrice locale o da me, che conosco governatori, leader di partito e grandi imprenditori?».

A dispetto della mole, si muove tra i caruggi con scioltezza. Omaggia il vescovo, blandisce gli anziani, incuriosisce i lamentosi. Vive a Bocca di Magra, nello spezzino, ma è nato in Toscana, a Viareggio. Colloca Novi Ligure nei paraggi, invece che in Piemonte. Potrebbe sembrare indigesto, come la farinata bruciacchiata. Invece, funziona. È un berlusconiano a 24 carati, sorridente e ottimista. L’esatto contrario degli ombrosi regnanti. Ed è pop. Furoreggia in tv e sui giornali. Mentre la sinistra brontola nelle emittenti locali. Epigono del Cavaliere, promette conseguente rivoluzione liberale: meno tasse e più impresa. «I liguri sono stanchi di cooperative che spadroneggiano. A Genova ci sono i supermercati più cari d’Italia». Annuncia battaglia, «per ripristinare la normale concorrenza». Esselunga, dopo anni di purgatorio, riuscirà a inaugurare i suoi supermercati. Ma quelle aperture, secondo la procura, sarebbero state ricambiate con pubblicità occulta al presidente. Palmaria, poi. L’isoletta «diventerà come Capri». Nove anni dopo, sarà indagato pure per questo proponimento.

L’aspirante governatore parla come mangia. A ruota libera. Mescola interesse pubblico e privato, persuaso che potranno coincidere. Come dimostrano ora le intercettazioni con il terminalista Aldo Spinelli, anche lui ai domiciliari. La rinascita della città passa, allora come adesso, dal porto di Genova: «Bisogna fare entrare aria nuova. Quando sarò presidente rivolterò tutto». A sorpresa, vince di misura. Il «modello Liguria» funziona subito: colazione ampia, programma liberale, basta provincialismo tafazziano. Da uomo di comunicazione, per esempio, spende e spande per rilanciare l’immagine della regione, la più vecchia e inospitale d’Italia. Gli anni seguenti segnano un record di turisti.

Sembrava si fosse candidato per sfuggire alla noia del Parlamento europeo. Invece, cerca di trasformare la Liguria in un laboratorio azzurro. Il potere diventa sconfinato. La sue liste civiche strappano al centrosinistra prima Savona e poi La Spezia. Ma il colpaccio è Genova, la roccaforte rossa. A giugno 2017 viene eletto sindaco il super manager Marco Bucci, perfetta espressione dello straripante totismo. Il governatore segue la sua campagna passo dopo passo. Suggerisce tattiche e strategie. Concede i suoi giannizzeri. Il candidato è lesto a imparare. Sfoggia slogan trumpiani: «Facciamo tornare grande Genova». Bucci, ancora una volta, è l’inaspettato che sotto sotto aspettavano: «Lei è di simpatie leghiste o forziste?» gli domandiamo mentre salta da un autobus all’altro. «Non capisco nemmeno cosa intenda. Contano le persone, non i partiti». Vuole trasformare la città nel sobborgo più bello di Milano, spiega a Panorama. «Nel 2022 sarà completato il Terzo valico e basteranno 45 minuti. Piuttosto che vivere ad Abbiategrasso, si potrà decidere di fare il pendolare in treno da Genova che ha mare, sole e cultura». L’aggiornamento dei lavori in corso non inficia l’intenzione originaria. L’alta velocità, bene che vada, partirà nel 2026. Ma il valore delle case nel capoluogo ligure, declinante da tempo immemorabile, già comincia a salire.

Che poi, il rinnovamento totiano non ha avuto nemmeno vita facile. Un anno dopo l’elezione di Bucci, nell’estate 2018, crolla il Ponte Morandi, il giunto che lega Levante a Ponente. Quarantatré morti. Migliaia di sfollati. Decine di milioni di danni. Città sempre più isolata. Futuro tribolato. «Alcune compagnie hanno smesso di toccare Genova» ci rivela Paolo Emilio Signorini, oggi arrestato nell’inchiesta genovese, al tempo presidente del porto. Il mare, attorno a cui ruota l’economia della Superba, è in burrasca. Per di più, a Palazzo Chigi ci sono i comandanti più improbabili: il premier per caso, Giuseppe Conte, e un ancor più dilettantesco ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli.

Eppure, Genova si rialza. L’inaspettato sussulto d’orgoglio diventa il sottofondo della trionfale rielezione di Toti, nel 2020. Convinto fautore del finanziamento all’americana, una tornata dopo l’altra, continua a chiedere una mano agli imprenditori. La sua fondazione, Change, è attivissima. Organizza anche cene ed eventi, spesso in posti indimenticabili. Il posto a tavola costicchia. Della Genova che conta o vuole contare, però, non manca nessuno. E tra i commensali non si sono solo interessati affaristi, ma soprattutto sostenitori che fiutano l’aria nuova. La procura ora denuncia presunti concambi: soldi in cambio di favori. A partire da quelli ottenuti da Spinelli, ex patron del Genoa, che gestisce enormi piazzali dove si accatastano le merci sbarcate dalle navi. Tra il 2021 e il 2023, Toti avrebbe ottenuto quasi 75 mila euro, usati anche per pungolare le velleità nazionali del suo movimento, Cambiamo.

Con animo e modi democristiani, il governatore tenta di mettere insieme politica, imprenditoria e finanza. Genova è piena di ambiziosi cantieri. Come il Waterfront di Levante dell’archistar Renzo Piano, che prevede un nuovo quartiere nell’ex Fiera. Per il centro storico c’è invece un «piano Caruggi» da 137 milioni. Poi, la Gronda: una nuova autostrada che si collegherà con il Terzo valico. Il fulcro di tutto resta comunque il porto. I traffici reggono. Genova resta prima in Italia per traffico di container. Ma i concorrenti, specie quelli nordeuropei, sono sempre più agguerriti. Bisogna, dunque, ampliare e rafforzare. Il progetto decisivo è la nuova Diga foranea, per sbarrare il moto ondoso e far attraccare le navi di maggiori dimensioni. L’Autorità anticorruzione, lo scorso marzo, eccepisce però sui lavori individuando sette criticità, a cominciare dalla mancata procedura di gara. Toti svelena: «La mia Liguria applaude la diga, non gli esposti sulla diga. La mia Liguria combatterà sempre l’ipocrita forma a discapito della sostanza».

La sua Liguria applaude anche l’attivismo di uno degli imprenditori più ricchi del pianeta: Gianluigi Aponte, 83 anni, proprietario di Msc, numero due al mondo nelle navi cargo e tra le prime compagnie di crociera. A dimostrazione di quanto sia cruciale Genova per il suo sterminato impero, decide di comprare perfino il glorioso quotidiano cittadino: Il Secolo XIX. Il porto è il suo interesse principale, certo. Ma lo sono pure ferrovie e autostrade. Sulla linea ad alta velocità, per esempio, potrà sfrecciare Italo: l’armatore, lo scorso ottobre, ha comprato il 50 per cento della società. La Liguria, però, resta ancora isolata. Insomma, bisogna fare alla svelta. Qualcuno invece vorrebbe approfittare degli arresti, riportando la storia indietro di nove anni. Ai tempi in cui la torta di riso era sempre finita.

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