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25 aprile, da Festa della Liberazione a giorno contro il Governo Meloni (e scusa per il Ponte)



25 aprile, Festa della Liberazione. Dobbiamo ripensare bene a queste due semplici parole: Festa e Liberazione. Purtroppo con il passare degli anni abbiamo perso sia il concetto di Festa e pure quello di Liberazione.

Da Festa nazionale per ricordare la fine di una guerra sanguinosa costata la vita a centinaia di migliaia di italiani, ormai il 25 aprile è solo una data in cui scuole ed uffici sono chiusi e quindi si è trasformata in occasione per viaggiare. Da Festa a Ponte.

Colpa anche di chi l'ha trasformata anno dopo anno sempre più in una giornata di appartenenza politica, di sinistra. Guardate i giornali di oggi. Sono pieni delle parole di Scurati, frasi durissime come «...la deriva fascistoide è qui...credo che l'Italia non abbia mai attraversato il fantasma del fascismo e che quel fantasma abiti ancora il nostro presente in forma ampia e meno appariscente di svastiche e manganelli».

Capite bene che essendo queste le parole del «Capo Popolo» dell'anno di Liberazione non se ne parla; il vero ed unico concetto è che si tratterà di una giornata contro il governo, di destra, anzi, Fascista. E non pensate che sia una cosa di questo 2024.

Su internet è facile recuperare le prime pagine del 24 aprile 2023. Sapete come titolava Repubblica?

Sono passati 365 giorni e siamo sempre lì, bloccati in una polemica utile solo per scaldare la folla di quelli che domani scenderanno in piazza, sempre e solo quelli, sempre più di parte, sempre più antigovernativi, ma sempre meno degli avversari quando si va a votare.

In questo clima davvero triste, visto l'utilizzo che oggi ha questa giornata storica per l'Italia abbiamo ritrovato nell'archivio di Panorama un commento di Enzo Biagi proprio sul significato della festa della Liberazione. Vi lasciamo alla lettura, nella speranza di ritornare a questa profondità di analisi e pensiero che Scurati e la sinistra di oggi non riescono nemmeno ad avvicinare...

25 aprile, una festa per ricordare (da Panorama del 29 aprile 1994)


di Enzo Biagi

Oggi negli stampati turistici Dachau è descritta come "una amena località famosa per le trote e per il vinello". E' stato proprio un poeta tedesco che ha scritto: "Con la morte si spengono le fiamme dell'odio". E aggiungo: anche gli impulsi della memoria. E' vero; ma credo che perfino nel decesso ci sia qualche differenza, tra la fine, per esempio, dei milioni di ebrei che passarono per i camini di Auschwitz, e quella di Höss, il comandante del Lager, che venne impiccato, dopo un processo, al centro del campo.

Un programma della Rai, Combat film, fatto soprattutto da riprese inedite, girate da operatori americani durante la guerra, e seguito da una sopita discussione, ha riacceso la polemica: qualcuno ha voluto riabilitare Salò? Stessi valori per la Resistenza e per i combattenti della Decima Mas? Erano eroi i sabotatori mandati oltre le linee alleate, poi catturati e fucilati dalla Quinta armata o dagli inglesi?

Avevo due amici conosciuti al Guf (Gruppo universitario fascista): Eugenio Facchini e Ferruccio Terzi. Facchini aderì alla "repubblichina" di Benito Mussolini, diventò per qualche giorno federale di Bologna, venne abbattuto a colpi di mitra da uno sconosciuto gappista. Era un ragazzo generoso, volontario in Russia, per redimersi di alcune dure critiche al regime pubblicate su Architrave, il giornale degli studenti universitari: voleva, dopo l'8 settembre, ripulire il fascismo dagli abusi dei gerarchi e mantenere fede ai patti coi tedeschi in nome dell' onore. Ferruccio Terzi, nipote di Arconovaldo Bonaccorsi, un vecchio squadrista, era medico: non abbandonò i suoi compagni partigiani feriti, e venne appeso col filo di ferro ai cancelli dei Giardini Margherita. Sono sempre vivi, tutti e due, nel mio rimpianto e nel mio ricordo.

Ma forse è colpa del tempo e dei tanti guai di oggi che cancellano le angherie di ieri (e anche perché i "nostalgici", per evidenti ragioni anagrafiche, tendono a scomparire), se il passato si fa sempre più lontano. Forse è anche una responsabilità di noi che c'eravamo, e che avremmo dovuto parlare ai nostri figli, di quegli anni e di quelle sconfitte: Mussolini non era soltanto il padre del pianista, ma portò "l'Italia di Vittorio Veneto", come disse presentandosi al re, quella del 1918, a Cassibile (1943), data che segna il disastro e la richiesta di armistizio.

Era allora, un grande politico? E' vero che, quando salì al potere, godeva di tante simpatie: anche il mite De Nicola, a Napoli, alzò la mano, per salutare le quadrate legioni di camicie nere in partenza per Roma. Piaceva ad Arturo Toscanini, e a certi popolari di allora, come Giovanni Gronchi, che divenne sottosegretario del duce al Corriere e anche a Benedetto Croce, che nel 1935 offrì la sua medaglietta di senatore della patria che andava a conquistare l'Abissinia. Fu quello il massimo dello splendore: anche parecchi comunisti entrarono in crisi, e il cardinale di Bologna, Nasalli Rocca, diede a quei colonialisti tanto in ritardo sulla storia la sua croce pastorale, e quello di Milano, Schuster, definì il Fondatore dell' impero "l'uomo della Provvidenza", compromettendo dunque anche Dio.

Oggi c'è chi ha promosso la causa di beatificazione: fu l'ultimo che ricevette il capo del governo lacustre che stava avviandosi sulla strada che porta a Dongo. Che ne sanno i giovani di queste vicende? Le sequenze trasmesse dalla tv ispiravano orrore e pietà. Pietà per tutti: anche per quel giovanotto legato a un palo che, sprezzante, fumava l'ultima sigaretta aspettando la scarica del plotone di esecuzione, certo di cadere per una nobile causa.

Bisognerebbe spiegare come si arriva a quella folla disumana e inferocita di piazzale Loreto: che cosa faceva la Wehrmacht, quali erano gli ideali del nazismo, che cos'erano i rastrellamenti, che paese è Marzabotto, a 20 chilometri da Bologna: non è solo, con la sua necropoli, testimonianza del mondo degli etruschi, ma di una rappresaglia che ha reso il suo nome, con quelli di Lidice e Oradour, tristemente famoso. Salò voleva dire anche la persecuzione degli ebrei, i 90 mila dispersi in Russia, le umiliazioni patite in Grecia, e le croci con nomi italiani piantate nel deserto. Quei volontari innocenti, attirati anche dai manifesti di Boccasile, dalle predicazioni sulla vita eroica, andavano a "combattere e a morir", come diceva un loro inno, forse per "difendere la razza"?

Il leader della destra, di quella che era considerata l'erede di Mussolini, è ora Gianfranco Fini: è bolognese come me, e l'ho visto fotografato accanto al padre: da bambini giocavamo assieme nella squadretta di calcio della parrocchia di Sant'Isaia. Fini, pensa, come è noto, che Mussolini è il più grande statista di questo secolo: ed è una tesi che è finita, con stupore, anche sulle prime pagine dei giornali stranieri. Non è più il capo del Msi, ma di Alleanza nazionale e piace molto agli elettori. Tredici su cento sono con lui: e si capisce. E' intelligente, in televisione si comporta senza alterigia, non perde il controllo, e ha passato da poco i quaranta. Non deve spiegare le sue scelte con degli errori ma con delle convinzioni e non ha niente a che fare con l'epoca della partitocrazia. E' una persona onesta e gode del rispetto anche di insospettabili antifascisti. Forse suo padre gli ha raccontato di quando sull'Assalto!, organo della Decima Legio, diretto da Leo Longanesi, uscivano articoli in cui si diceva: "Meglio un balilla di dieci chierici". Noi servivamo la messa, e molti di quei balilla di allora non sono più ritornati. Il suo elettorato è soprattutto meridionale: l'esperienza di Salò non li ha toccati. Ricordano, credo, i dubat che sfilano sulla via dell'Impero, non i soldati dell' 8 settembre avviati ai vagoni che li porteranno in Germania.

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