foto da Quotidiani locali
Goran Vojnović, uno dei più affermati scrittori del panorama culturale e letterario sloveno. Vincitore in patria, per ben tre volte, del premio Kresnik per il miglior romanzo pubblicato. Dopo Cefurj raus! e Jugoslavia, terra mia presenta ora in regione Il collezionista di paure, pubblicato, come i precedenti, dalla Forum editrice.
Dopo aver incontrato gli studenti dell'Istituto Magrini-Marchetti di Gemona, l'autore presenterà il libro a Udine e a Trieste. Martedì 9 aprile, alle 20.30 al circolo Nuovi Orizzonti a Udine, sarà in dialogo con Angelo Floramo e Patrizia Raveggi, la sua voce italiana, traduttrice dei suoi romanzi. La serata sarà accompagnata dalle musiche di ispirazione balcanica di Giorgio Parisi. Mercoledì 10, alle 18, sarà la volta di Trieste: al caffè San Marco con Alessandro Mezzena Lona e la traduzione a cura di Odinea Zupin.
Ci sono luoghi in cui il tempo non passa mai: la Slovenia, un piccolo paese di fosse comuni; o la Siria, la Palestina, l’Ucraina. Ma anche Rab, Gonars, la Risiera. Eccolo che torna Goran, il talentuosissimo scrittore che fatico a definire sloveno, o bosniaco o cos’altro ancora. Perché è figlio di quelle tragedie che hanno insanguinato il secolo breve “birillando” le anime e le memorie dell’Europa attraverso i percorsi insanguinati dei confini. Chi vive sulla frontiera sa bene che mette le sue radici “u Krajina”.
Sul confine, appunto. E ho detto tutto! Questo intensissimo romanzo, in cui storia, memoria e geografia si impastano assieme, comincia proprio dal bisnonno dell’autore, Leon Obleščuk, ucraino galiziano, nato in una terra all’epoca soggetta all’Impero austro Ungarico, proprio come la Bosnia, in cui si era trasferito solamente per essere poi chiamato a servire la bandiera imperiale in una caserma in Slovenia, proprio quando gli spari esplosi sul ponte latino, a Sarajevo, il 28 giugno del 1914, fecero deflagrare la Prima guerra mondiale.
Eppure il mondo, cento anni fa, era ancora tanto semplice “prima che i Bosniaci sparassero contro i Bosniaci”, ricorda l’autore. Figlio di immigrati, un “cefur”, come lo chiamerebbero gli sloveni, come a dire un “terrone”, con un che di zingaro e di strano che si intrecciano assieme: la mamma dall’Istria Croata, il papà dalla Bosnia centrale. Insomma uno che ha sempre vissuto la condizione dell’esilio dentro lo spazio di un paese che non è più il suo paese
Vincitore di prestigiosissimi premi letterari internazionali, tra i quali il “Latisana per il Nord Est” attribuitogli nel 2018 per “Jugoslavia terra mia” (un capolavoro assoluto, anche per l’opera mirabile della traduttrice e curatrice, Patrizia Raveggi), Vojnović va qui collezionando le sue paure, che in fin dei conti sono anche le nostre. La Jugoslavia e l’impero Austro Ungarico sono due spazi, due geografie complesse, due stati che non esistono più. O forse rimangono impigliati nell’immaginario collettivo, nella nostalgia di qualcuno. Sono espressione del tempo della memoria.
Quando, come ricorda l’autore, attorno al tavolo della festa, a Lubiana, nel cuore degli anni ’70, non era inusuale che ci si mettesse a cantare insieme “sevdalinke” bosniache cariche di melanconia. Oggi non potrebbe più accadere, perché i nazionalismi hanno deciso che si dovese purificare non solo il sangue, ma anche la lingua, la cultura, i ricordi. Non si parla più il cefurščino, la lingua dei “terroni”, di quegli strani, e i grandi nomi della letteratura Jugoslava sono ormai diventati semplicemente autori locali: Andrić, Krleža, Kiš. Credeva nella potenza della letteratura, un tempo, l’autore di queste pagine.
E adesso? Forse non più. Forse resta solamente il ricordo di quello che siamo stati, a salvarci, o a darcene l’illusione. Così un fico in un cortile a Pola; un ciliegio tra due case in Bosnia. Il monte Jahorina sopra Sarajevo, la nebbia e le tubature gelate, la pizza mangiata a Rovigno: sono gli unici scatti interiori che sopravvivono al tempo della Tragedia, l’album delle fotografie smarrite dentro a una scatola di scarpe, nel sottoscala della nostra memoria che si “sfolla”. La suggestione delle immagini. Quella geografia emozionale che ognuno di noi si porta dentro, da qualche parte, e che mette insieme, in qualche modo, gli accenti che ritmano il nostro stesso nome. Crescere dentro a una lingua: il concetto che Vojnović trasforma in racconto è bellissimo. Va di pari passo con quel “non appartengo, dunque sono”, così di moda, in questi ultimi tempi, per buona parte di quell’umanità che va ramingando ancora, sull’orlo del Mondo. Ma si sa, l’appartenenza si ribella sempre alla dittatura delle carte geografiche. Quel che rimane, a noi che siamo erranti da sempre, sono forse le paure: della guerra, del Covid, di un uomo che parla in arabo di Dio in un treno, di perdere noi stessi, di smarrire i nostri sogni. Che altro potremmo fare, se non collezionarle?