Umberto Orsini, 89 anni, una carriera infinita a teatro, al cinema, in televisione. Da venerdì (ore 20.30) a domenica sarà al Fraschini con “Ragazzi irresistibili” di Neil Simon sull’onda del successo di uno spettacolo che ha debuttato a Porto Recanati il 5 dicembre. Le tappe più recenti, al Piccolo e a Napoli sempre tutto esaurito.
«Sono contento che al Fraschini resista la programmazione in tre serate. Un po’ ovunque hanno ridotto gli spettacoli».
La coppia Orsini-Branciaroli piace. Dobbiamo trarre questa conclusione?
«Il testo di Neil Simon ci aiuta molto, dal punto di vista popolare. Un testo che sotto la lente d'ingrandimento mio, di Franco Branciaroli e, soprattutto del regista Massimo Popolizio non coglie solo i pretesti comici e spiritosi, ma anche altri più umani».
Ci sintetizza la trama?
«È la storia di due attori che sono stati insieme 43 anni, poi si sono divisi e dopo tanti anni che non si vedevano, si ritrovano in tv. Due vecchi amici diventati nemici, una parabola che nel teatro succede spesso tra colleghi».
Come nasce il sodalizio con Franco Branciaroli?
«Nasce dal fatto che ci intendiamo molto bene in scena. Siamo abbastanza complementari, non ci pestiamo i piedi. Insieme creiamo una sinergia anche tonale: voci diverse, fisici diversi, non ci somigliamo».
Mai state invidie tra voi?
«Quando ci siamo conosciuti, trenta anni fa, questa contrapposizione c'era, ma la vivevamo sempre con rispetto. Ho sempre apprezzato la capacità creativa di Franco, che ne ha molta. Anche oggi, qualche sera, cambia intonazione, mi spiazza. Io sono bravo a parare i colpi e adeguarmi».
Una tournée è impegnativa, immagino...
«Si, ma ceniamo quasi sempre insieme, andiamo negli stessi alberghi. Sono io che organizzo. Se sto bene, nel senso che non ho raffreddori o cose simili, la tournée non mi pesa. Alla mia età devo misurare le forze, gestire la giornata».
Oggi i teatri, così almeno capita a Pavia, si riempiono se ci sono in scena attori della tv o del cinema. Senza fare nomi, capita di vedere il pubblico applaudire a spettacoli abbastanza modesti.
«Questo è un punto fondamentale e un grande disagio per noi. Il pubblico non sa riconoscere la qualità, non la vede».
Di chi è la colpa?
«È da dividere. I gestori dei teatri pensano di fare un servizio al teatro cercando i nomi. Poi manca l'abilità, manca la pratica teatrale. C’è l’ invasione dei microfoni».
Mi permetta, alla sua età non usa il microfono?
«Certamente no. Neppure al teatro Strehler, a Milano, dove ci sono 1.200 posti. In generale posso dire che addolora vedere un brutto spettacolo amato dal pubblico. Il brutto invade, come un blob, si rovescia, come una massa di letame. E il pubblico non se ne accorge».
Voi state avendo successo.
«Il nostro spettacolo ha successo. La gente applaude».
Non c’è il rischio che vi accomunino a tanti spettacoli “microfonati”?
«Domanda tremenda. Noi abbiamo una grande autostima. Del nostro passato e del presente. Certo, una generazione di pubblico che distingue, sta scomparendo».
Non sarete troppo pessimisti? Il vostro regista, che è anche attore, Massimo Popolizio, ha 30 anni meno di lei.
«Popolizio fa parte della nostra generazione. È un mio collaboratore stretto, ha prodotto diversi spettacoli, è della mia scuderia. Ha avuto un padre, Ronconi, e diversi zii: Orsini, Pani, Guarnieri».
Stessa scuola?
«Quella di Ronconi. Ci ha dato un metodo».
Lei ha recitato con tutti i grandi registi del Dopoguerra. Ce n’è uno che rimpiange?
«Sì, Visconti, perché in realtà mi dava grande libertà. Mi lasciava molto libero, mi sentivo di tirare fuori quello che normalmente non avevo il coraggio di fare. Mi dava una rete di protezione, non mi lasciava cadere nel burrone quando mi lanciavo».
Lei veramente ha fatto di tutto. Anche un programma di cucina alla televisione, nel 1971.
«Si chiamava Colazione allo studio 7. Di quella trasmissione non sono rimasti documenti. È stato il programma antesignano di un genere. Lo proposi io alla Rai, dopo un viaggio negli Stati Uniti».
Ci racconta cosa accadde?
«Mi recai da un capo struttura, si chiamava Rispoli. All’epoca a mezzogiorno non c’erano programmi, così proposi di fare un programma di cucina su imitazione di The Galopping Gourmet, che negli Stati Uniti piaceva moltissimo. Il canovaccio era una sfida tra cucine, prodotti e cultura regionali. Invitavamo due grandi cuochi e li mettevamo a confronto. Venivano in studio personaggi come Mario Soldati, Visconti, Zurlini, Caprioli, Patroni Griffi. Era un misto di cultura alta e cultura popolare. E poi c’era Veronelli, un maestro di sapienza e capacità».
Fin quando è durato?
«Per me solo dieci puntate. Quando per strada mi chiedevano le ricette e non di uno spettacolo teatrale ho capito che rischiavo di finire verso una china sbagliata. Così ho lasciato il posto ad Ave Ninchi e, poi a Delia Scala. E oggi c’è la Clerici».
A quasi 90 anni ha un cruccio?
«In realtà ho sempre scelto. Ho fatto anche dei grandi rifiuti. Ma recentemente mi è successa una cosa curiosa. A Castiglioncello mi hanno voluto dare un premio per il mio unico libro, “Sold Out”. Premiandomi in Comune hanno voluto darmi un foglio autentico del primo copione del Sorpasso. A fianco del nome di Gassman c’era il mio. Poi, pare, che per via della co-produzione franco italiana hanno chiamato Jean Louis Trintignant. Forse le cose della mia vita sarebbero andate diversamente».