TRIESTE. L’osservatorio sul mondo è un bar sulle Rive. Il solito. Il tavolino di sempre. Il sigaro tra le dita. Accanto alle sua, Bogdan Tanjevic tiene sempre qualche altra sedia libera. Per accogliere gli amici, per parlare di basket, per distillare ricordi e metafore. La storia di 50 anni nello sport è fatta di volti, partite. È fatta di altre storie, spesso ben più importanti di una coppa in bacheca.
Tanjevic, Trieste ritrova la massima serie.
«Non ho potuto seguire di persona tutte le partite al PalaTrieste, mi sono spaventato dopo qualche sconfitta. La svolta l’ha data il riconoscimento della leadership a Michele Ruzzier. Una squadra ha sempre bisogno di chiarezza e di un leader. Lui lo è. Ha fatto la differenza, può tenere sempre il campo in A. Mi piace l’ingaggio di Jeff Brooks, è un buon giocatore, aveva bisogno di tornare a giocare con continuità».
I due stranieri visti in A2, Eli Brooks e Reyes, li riconfermerebbe?
«Perchè no? Sono brave persone, giocano con la squadra».
Lei non ha mai avuto problemi a puntare sui giovani o nomi a sorpresa.
«Ancora adesso in serie B ci sono elementi che potrebbero giocare in A, se seguiti lavorando in palestra. Ai ragazzi io dico: hai difetti? Lavora, puoi sempre migliorare. Di materiale umano valido ce n’è. Faccio un esempio, il più “picio”. Ignatjovic, dello Jadran, chiamato nella Nazionale Under 17, ha mezzi super, intelligenza cestistica, lo farei allenare con i grandi e giocare in serie B per un anno prima di lanciarlo alla grande. Un talento. Bisogna crederci. Secondo me Dellosto era pronto per giocare nella Pallacanestro Trieste già tre anni fa, aveva tutto per affermarsi. E continuo. Quando la Stefanel si trasferì a Milano lasciò comunque a Trieste qualche ragazzo di talento sul quale lavorare. Non esagero, Furigo poteva diventare il nostro Byron Scott. Budin, Spigaglia...»
Ma perchè è così difficile puntare sui ragazzi?
«Perchè per tutti è più facile mettere al loro posto uno straniero fatto e finito, si corrono meno rischi però non si costruisce niente».
Come si costruisce un giocatore?
«Sfruttando tutte le opportunità. Non ho mai finito una stagione senza sottoporre le mie squadre a due allenamenti al giorno. I contratti scadono il 30 giugno? Va bene, fino al 27-28 stiamo in palestra perchè è questo il momento nel quale si può lavorare davvero per far crescere tecnicamente un giocatore. Dicevo: tu lavori il 20 giugno per essere più forte il 25 luglio alla ripresa degli allenamenti e mi ringrazierai. Ma è così difficile organizzare qualche amichevole per far progredire un gruppo? Eravamo in B1, organizzammo una partitella con la Nazionale italiana di Gamba che si stava preparando a Trieste. Per tre quarti della gara restammo avanti. Noi, con ragazzi di B1. Ma avevamo Cantarello, 214 cm. Martini, 215, Zarotti, 204».
Traspaiono parecchie perplessità sui criteri di allenamento attuali.
«Sento che adesso le squadra si allenano un’ora e mezza al giorno. Come è possibile? Il Sesana, seconda divisione slovena, si allena ogni giorno mattina e sera. Il Sesana! In serie A italiana invece una volta sola. Spesso ci lamentiamo ma non si fa niente per cambiare e migliorare. Proviamo a ricordare come erano composte le squadre italiane quando vincevano le Coppe europee. Due stranieri e otto giocatori italiani. Otto. Erano loro che davano un’identità a una formazione. D’accordo, non si può modificare il corso della storia e tornare ai due stranieri ma qualche correttivo ci sta».
Quale potrebbe essere la formula ideale?
«Insisto: secondo me 4 stranieri e otto italiani. Il pubblico si riconoscerebbe nella squadra, si potrebbe fare un programma proiettato a lungo termine e non come adesso con stranieri che vengono ruotati in continuazione e i tifosi non fanno in tempo a conoscerli che già ne arriva un altro. Bisogna riportare il basket al centro dell’attenzione. Mettiamo a confronto l’audience dei match trasmessi in televisione in Italia e quelli in altri Paesi. In Spagna il basket attira 4 milioni di telespettatori. Secondo voi, si troveranno più facilmente sponsor e investitori lì o da noi?»
Manchiamo di strategia?
«Bisogna sempre porsi obiettivi. Se prendi un giovane devi sapere cosa vuoi fare di lui. Io ho iniziato ad allenare presto. A 24 anni ero coach del Bosna Sarajevo, a 32 ho vinto una Coppa Campioni con una squadra giovanissima e ho allenato la Jugoslavia senior dopo aver già fatto da responsabile dei team giovanili. Mi era stata data fiducia. E io la davo ai miei giocatori. Drazen Petrovic a 17 anni ha meritato di venir lanciato in Nazionale. Quando ho visto per la prima volta Radovanovic era un ragazzo di due metri e 10 che si divideva tra basket e calcio. Era intelligente, ho detto con 4 ore di allenamento al mattino e due la sera in un anno lui diventerà il mio pivot titolare. E lo è diventato».
Quale è stato il miglior giocatore italiano allenato?
«Per me Dino Meneghin resta il più grande in Italia. Era un punto di riferimento, in campo, fuori. Un leader. Non gli è mai importato delle statistiche, lui semplicemente faceva tutto ciò che era giusto per far vincere la squadra. Riusciva a far riconoscere la sua leadership anche dai giocatori statunitensi. Non amava subire colpi sotto canestro ma quando lottava nell’area di botte ne dava. Mai stato, però, un giocatore cattivo, di quelli che fanno male all’avversario. Quanto lo ho inseguito per convincerlo a venire a giocare a Trieste. Io, che ero conosciuto come l’allenatore che lanciava i ragazzi, incalzavo per settimane un quarantenne. Ma lui non era un giocatore di 40 anni, lui era Dino Meneghin».
C’è qualcuno che può somigliargli?
«Difficile. Tra i cestisti di adesso forse rivedo alcune sue caratteristiche in Melli. Ma Dino resta Dino, il numero uno».
Il suo rapporto con i giocatori triestini?
«Il Poz l’ho allenato solo in Nazionale. Quando è diventato commissario tecnico gli ho detto: “Vedrai che adesso farai tutto il contrario di quello che pensi”. Conoscendolo, sento che qualche volta si trattiene. Ad Attruia ho sempre detto che lui è il mio rimpianto, mi sarebbe piaciuto allenarlo. Sono affezionato a De Pol, quando aveva 17-18 anni era incredibile, poteva cambiare in qualsiasi ruolo i compagni di squadra. Un combattente strepitoso. Era il preferito di Cesare Rubini».
Cosa pensa della Nba?
«Preferisco il basket europeo e non è una novità. Jokic è un lungo che però vale anche come play aggiunto. Un po’ come era Cosic. Si vede che si amare dal gruppo perchè non pretende di essere la stella nè il mangiapalloni. Si prende i tiri che sente di potersi prendere, non forza, è positivo. Mi piace anche Luka Doncic, certo. Ma è diventato più individualista, sente di essere l’uomo attorno al quale gira tutto. Però ad esempio non basta per portare la Slovenia oltre il Preolimpico. Non è più la Nazionale che vinse l’Europeo nel 2017. Lì c’era Doncic ma al suo fianco c’era Goran Dragic».