Stefano Carrai raccoglie in volume tutti gli scritti del critico sul poeta triestino. Un sodalizio che durò trent’anni
TRIESTE. Un libro più che utile, necessario, il volume che raccoglie per la prima volta tutti gli scritti di Giacomo Debenedetti sul poeta triestino, curato da Stefano Carrai, uno studioso che si va profilando sempre più nettamente come il maggior interprete di Saba in questo primo quarto di secolo (Giacomo Debenedetti, Saba - Scritti e saggi, 1923-1974, pp. 205, Carocci, Ɛ 22). Il legame di stima e d’affetto che ha legato il poeta e il critico fa peraltro ormai parte della storia e della leggenda della cultura italiana del secolo scorso, “uno dei rapporti di letteratura e di amicizia fra i più proficui e importanti del Novecento”, chiosa Carrai nella densa introduzione. Favorito anche, come spiegava Debenedetti con un’intonazione avvalorante che forse il poeta non avrebbe condiviso, dalle “somiglianze di tipi, vicende, gusti, abitudini, manie, nobiltà e ridicoli tra le nostre due famiglie ebraiche”.
Se, come si sa, Debenedetti, tra i critici letterari più acuti e sensibili del secolo scorso, aveva sempre avvertito un certo sospetto nei confronti di quella che egli considerava la falsificante cancellazione dell’ebraismo da parte di Svevo romanziere, che soddisfazione invece trovare evidenti affioramenti di una identità condivisa in un poeta nato dallo stesso clima mitteleuropeo, pronto a dichiarare di essere figlio del conflitto di “due razze in antica tenzone”, e che va costeggiando motivi e sensibilità ebraica fin dalle prime prove poetiche (quella famosa “stanchezza che moralmente ci ripugna”, secondo il giudizio di Scipio Slataper).
Ovviamente non è questa l’unica ragione a determinare la sintonia che presto si crea tra il poeta e il suo maggiore interprete novecentesco, come chiarisce lucidamente Carrai e testimoniano le lettere che i due si scambiarono vita natural durante. Fondamentale e decisivo, la carta vincente per conquistarsi l’affetto di un narcisista come Saba, la grandissima stima che Debenedetti dimostrò per il poeta fin dal primo saggio dedicatogli nel 1923. Qualche anno dopo avrebbe chiarito il proprio pensiero in termini assolutamente espliciti: Saba “è forse il poeta contemporaneo nel quale più viva e incorruttibile sia rimasta la fede di poter offrire la poesia, direttamente e senza simboli intellettualistici, un dono d’anima”.
Un’interpretazione ampiamente valorizzante a cui Debenedetti rimase sempre fedele, sia pure articolando, sfumando, precisando, fino all’ultimo contributo sabiano, uno scritto universitario dell’anno 1958-59, ma pubblicato appena nel 1974. Del resto, fra tutti coloro che vedevano nel triestino un poeta di statura maggiore, Debenedetti fu il solo a fargli scudo con la penna nel 1930 quando Alfredo Gargiulo scrisse di lui come di un prosastico poeta d’occasione, rinverdendo l’antico giudizio negativo di poeta crepuscolare espresso dagli ambienti della “Voce”.
A rendere più intenso il rapporto contribuì anche il crescente, comune interesse per la psicoanalisi, quella chiave d’accesso all’interiorità cui Saba si aggrappa come a un’ancora di salvezza per suturare il povero “cuore, dal nascere in due scisso”, e per tastare l’“abisso” che le “rose” della poesia riuscivano a stento a celare. Qui i ruoli si invertono ed è il poeta a diventare il razionalistico esegeta dei grovigli psichici dell’amico che giudica sintomi di “un leggero caso di isterismo” complicato da una lieve “stortura dell’Io”.
Malinconica la conclusione del loro armonioso affiatamento trentennale; quando “Giacomino” sale a Trieste, nel 1954, con l’intenzione di rendere visita a Saba, sempre più invischiato nella nevrosi, questi rifiuta di vederlo, scusandosi con un laconico messaggio, che tuttavia rivela l’intima disperazione: “sto molto male ed ogni parola umana non può che farmi star peggio: anche, amico mio, una tua”.