BELGRADO La tensione rimane altissima, con polemiche e nuove crisi che si aggiungono a quelle vecchie, ancora irrisolte. E le diatribe bilaterali tra Belgrado e Pristina ormai non risparmiano nessuno, inclusa la figura più alta della Chiesa serba. Figura che risponde al nome di Porfirije, il patriarca della Chiesa serbo-ortodossa (Spc), finito a sorpresa, e tra enormi polemiche, su una “lista nera” decisa dal governo kosovaro, assieme ad altri sette vescovi serbi, che così non hanno potuto recarsi in Kosovo per una delle più importanti assemblee religiose serbo-ortodosse, al monastero di Pec.
A loro è stato infatti vietato l’ingresso in Kosovo, dopo che erano già arrivati fino al posto di confine di Merdare, malgrado una richiesta presentata in anticipo, come da regole in vigore. «Sua santità Porfirije, con altri sette vescovi» si è visto impedire l’entrata in Kosovo «senza spiegazioni», ha annunciato così la Chiesa di Belgrado, che ha parlato di decisione «inaccettabile e irragionevole», ma che al contempo «riflette accuratamente la situazione della Chiesa e del popolo serbo in Kosovo e Metohija».
Addolorato si è detto anche lo stesso patriarca, che ha affermato che «tutte le porte nel mondo mi sono aperte, come le nostre sono aperte a tutti», ma sono state serrate da Pristina proprio «quelle della mia casa, il Patriarcato di Pec». «Come patriarca serbo, come cittadino e come fedele, proclamo che queste porte, prima o poi, saranno aperte da Dio in persona e chi le ha chiuse fa male soprattutto a sé stesso», ha aggiunto. Non prima di rimarcare, tuttavia, che il divieto d’ingresso al patriarca è nulla, in confronto a quello che subiscono «i serbi che vivono nei ghetti» in Kosovo, una lettura condivisa anche dal neo-ministro degli Esteri serbo, Marko Djuric.
Impedire a patriarca e vescovi di entrare in Kosovo è una mossa «disdicevole», ha attaccato anche il numero uno dell’Ufficio governativo serbo per il Kosovo, Petar Petkovic, in un tweet diretto a Dora Bakoyannis, relatrice al Consiglio d’Europa e sostenitrice dell’ingresso di Pristina. Durissima anche la Srpska Lista, il partito di maggioranza tra i serbi del Kosovo, che ha parlato di «decisione vergognosa e irragionevole», ultima di una serie di misure pensate da Pristina per «vietare tutto ciò che è serbo», un chiaro riferimento al dinaro, questa settimana diventato completamente illegale e alle patenti serbe utilizzate dalla minoranza in Kosovo, anche queste nel mirino delle autorità.
Completamente opposta, come sempre, l’altra campana. La decisione, infatti, è stata successivamente giustificata, se così si può dire, dal ministero degli Esteri del Kosovo. «Finché la Serbia continua a violare l’accordo di Bruxelles, non permette visite ai nostri funzionari in Serbia e non ferma le campagne contro il Kosovo sull’agone internazionale» e continua a «usare linguaggi d’odio contro il Kosovo e i suoi rappresentanti, le visite non saranno permesse anche dalla nostra parte», ha spiegato il ministero. Ma le giustificazioni non convincono, neanche fuori dai Balcani. Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Usa si sono dette ieri «preoccupate» dall’atteggiamento di Pristina, una decisione stigmatizzata anche dalla Ue. st.g.