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Ridiamo al lavoro il suo valore civile per frenare la fuga dei nostri giovani

Ridiamo al lavoro il suo valore civile per frenare la fuga dei nostri giovani

foto da Quotidiani locali

Sono oltre 130 anni che in tutto il mondo si celebra il 1° maggio come Festa dei Lavoratori. Fu la Seconda Internazionale nel 1889 a proclamare il primo giorno di maggio la giornata dedicata alle lotte dei lavoratori per i loro diritti. In breve tempo in tutti i paesi, anche in Italia nel 1891, si giunse a definire ufficialmente questa data per riconoscere la legittimità di rivendicazioni sociali che entravano direttamente nel cuore di una rivoluzione industriale che proprio in quegli anni stava manifestando appieno il suo potere trasformativo dell’intera società.

Per noi, per la nostra Repubblica, il 1° Maggio è molto di più del riconoscimento della legittimità della rivendicazione dei diritti dei lavoratori. Per noi il 1° Maggio è il perno di un percorso, laicamente sacro, che va dal 25 aprile, Festa della Liberazione dal Nazifascismo, al 2 giugno, celebrazione della nascita della Repubblica, nel giorno del referendum istituzionale del 1946.

Nella nostra Costituzione infatti al Lavoro viene assegnato il carattere fondativo della Repubblica stessa. “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” recita il Primo articolo della Costituzione Italiana, per affermare con tutta forza che la Repubblica non si basa su privilegi di casta o di censo, ma è democratica proprio perché ad ognuno è riconosciuto il diritto, ma anche il dovere di partecipare alla costruzione del paese ed a contribuire al suo sviluppo.

Per noi settantenni, che i nostri figli chiamano con irriverenza “Ok-boomer” perché nati negli anni del boom demografico, “lavoro” significava innanzitutto politiche contro la disoccupazione e la ricerca di un posto di lavoro a tempo indeterminato, con cui identificarsi e su cui tracciare tutta la propria vita. Oggi, ricordiamolo, la situazione è cambiata e nel pieno di un inverno demografico, che colloca l’età media degli italiani sopra ai 48 anni, la più alta in Europa, molti problemi per la nostra economia derivano dalla mancanza di personale in grado di offrire le competenze richieste per il nostro sviluppo.

Come segnalato dal recente Rapporto della Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo, dedicato all’economia e finanza dei distretti industriali i due principali problemi per la crescita della nostra industria sono la mancanza di personale, per sostituire i baby-boomers giunti alla pensione, e d’altra parte la difficoltà ad entrare pienamente nella nuova economia digitale, utilizzandone tutte le opportunità per potersi muovere agilmente nei nuovi mercati globali.

Lo studio di Intesa Sanpaolo segnala come le imprese operanti nei distretti industriali siano state le aziende più dinamiche ad uscire dalla trappola del Covid e contestualmente presentino tuttora dati finanziari e patrimoniali più positivi, così da farne gli investitori più promettenti di fronte a queste impellenti trasformazioni richiesti dalla nuova rivoluzione digitale.

Lo studio individua 25 distretti industriali, tuttora considerati la parte più dinamica del nostro sistema produttivo; di questi 13 sono nel Nord Est, trainati da ben nove distretti nel solo Veneto, due in Emilia Romagna, uno in Trentino Alto Adige e uno in Friuli. Sette sono i distretti tra Lombardia, Piemonte e Liguria, dove però operano imprese con maggiore redditività delle venete, e cinque nel resto del Paese.

È proprio nell’asse dei distretti tra Lombardia e Veneto, che si manifestano più esplicitamente i segnali di una crisi derivata dalla mancanza di competenze che rischiano di bloccare uno sviluppo che aveva retto sia alla prova della pandemia, che della guerra in Ucraina, che ha evidentemente colpito tutte le relazioni economiche non solo verso Est, ma anche verso la Germania, la più colpita dalla crisi dell’asse con la Russia su cui aveva basato la sua crescita dopo la Unificazione.

Le nostre imprese migliori vendono gran parte della propria produzione in mercati internazionali, sempre più incerti e complessi, con livelli di qualità sempre più sottoposti ad una competizione di prezzo e di contenuto tecnologico, in cui l’utilizzo di tecnologie digitali diviene essenziale per gestire ed innovare rapidamente una sempre più ampia varietà di problemi produttivi e commerciali.

Occorrono competenze fondate su molte conoscenze di base, ma anche e sempre più su una diretta esperienza di impresa, e quindi scuole, non solo per ragazzi “capaci e meritevoli” – come dice la nostra stessa Costituzione- ma anche per lavoratori adulti sempre più spiazzati dal cambiamento rapido delle tecnologie e degli stessi scenari internazionali.

I nostri stessi ragazzi sono cambiati e - come ci confermano sempre più numerose ricerche sociologiche- non più pressati dal bisogno impellente di sopravvivenza, vedono le loro prospettive di lavoro legate alla possibilità di realizzazione personale e di coinvolgimento in processi di crescita collettivi.

Pur avendo in Italia il minor numero di laureati sul totale della popolazione rispetto agli altri paesi europei, molti nostri laureati vanno all’estero perché non solo trovano salari e stipendi molto più alti che in Italia, ma soprattutto perché vengono offerte prospettive di carriera e di evoluzione del loro lavoro, ed anzi di rispetto del loro lavoro, che non riescono a rintracciare nel nostro Paese, neppure nelle aree più dinamiche.

Come Cattedra Unesco “Educazione, crescita ed eguaglianza”, di cui sono titolare all’Università di Ferrara, stiamo studiando a fondo questi problemi e verifichiamo che le imprese italiane continuano a richiedere specifiche mansioni esecutive, soprattutto di livello medio. Nella nostra banca dati “Talento” che raccoglie circa 70 mila richieste di lavoro solo una richiede un dottorato di ricerca, quindi quella che oggi viene ritenuto l’anello cruciale fra ricerca universitaria ed innovazione d’impresa.

Parlare di lavoro oggi vuol dire quindi ripensare gli obiettivi e l’organizzazione della nostra economia e della nostra società, ricordando che nel 2023 abbiamo avuto in Italia 1.041 morti sul lavoro, testimonianza tragica di un Paese che deve ancora porre il lavoro al centro della propria democrazia.

Celebrando oggi il 1° maggio poniamo al centro della nostra attenzione questi temi di trasformazione del lavoro, che ripresentano l’essenza stessa del nostro vivere civile. Anche se in forma diversa dal passato, anche oggi il lavoro è fondante la nostra democrazia e quindi il nostro sviluppo. —

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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