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Vite sospese, storie di ragazzi costretti a crescere senza la cittadinanza italiana

Vite sospese, storie di ragazzi costretti a crescere senza la cittadinanza italiana

La corsa a ostacoli quotidiana: «Viviamo come clandestini, ora il Parlamento deve aiutarci»

Quattro storie di giovani costretti a crescere in Italia senza la cittadinanza italiana.

PAMELA, 18 ANNI
“Sfuggita alla mafia di El Salvador, sono una rifugiata e mi sento italiana”

Studia lingue all’istituto Giulio Natta e durante le vacanze estive fa la babysitter e la cameriera. «Sono in quarta, ho perso un anno perché quando sono arrivata in Italia ho dovuto prima imparare la lingua». Ha 18 anni, è originaria di El Salvador, appartiene alla cosiddetta «seconda generazione» e non ha ancora la cittadinanza italiana. Si chiama Pamela Lisseth Espinal Avila. Un nome lungo come la sua storia. «Sono arrivata a Milano con i corridoi umanitari dieci anni fa» spiega. «I miei genitori erano perseguitati dalla mafia locale perché non volevano pagare il pizzo. Sono fuggiti per proteggere me e i miei fratelli». Pamela comincia così la sua vita in Italia da rifugiata, sui banchi delle elementari. Crescendo scopre Milano: l’aperitivo all’Arco della Pace, le Colonne, il Parco Vetra, i giri in Duomo, lo shopping in via Torino. «Ho anche imparato il dialetto, ogni tanto mi esce l’accento». Poi si fa seria: «Mi sento italiana, ma non lo sono nello Stato in cui vivo, studio e lavoro».

Le gite scolastiche, per esempio, sono un problema. «Fare esperienze all’estero è fondamentale se fai un linguistico, ma le mie sono un incubo. Una volta, di rientro da Parigi, mi hanno fermata chiedendomi il permesso di soggiorno e controllando che tutto fosse in regola. Mi sono sentita una clandestina». E poi c’è la questione del voto: «Non posso esprimere la mia opinione. Faccio parte di un collettivo politico, ma quando partecipo a una manifestazione ho paura ad alzare troppo la voce perché eventuali denunce potrebbero pesare sulla mia richiesta di cittadinanza». Con lo Ius Scholae, spiega, migliaia di giovani la avrebbero senza fare l’iter che sta affrontando lei: «Vivere in Italia per noi è come guardare film senza abbonamento Premium. Hai l’essenziale, ma non la libertà di scelta».

OMIT, 28 ANNI 
“Ho sofferto molto per la cittadinanza. Non ho viaggiato né lavorato all’estero”

Quando Omit Abdulrazak, due settimane fa, ha giurato sulla Costituzione di rispettare le leggi della Repubblica italiana, ha tirato un grande sospiro di sollievo: «Finalmente ho quello che mi spetta, da troppo tempo», è stato il primo pensiero. Poi ha ricordato, con una punta di rabbia, tutte le porte chiuse che ha trovato sulla sua strada e le esperienze a cui ha dovuto rinunciare per la mancanza del passaporto italiano, lui che nel nostro Paese è cresciuto da quando ha 5 anni. Oggi ne ha 28 e riflette sull’assurdità di alcune leggi: «Se lo Ius Scholae fosse stato in vigore, avrei realizzato il mio sogno di un’esperienza di studio negli Stati Uniti o un viaggio a Istanbul. Quei desideri mi sono stati negati», racconta.

Nel 2001 è arrivato dall’Iraq con il padre, la madre e sei fratelli in un paese in provincia di Matera. In Basilicata ha frequentato elementari, medie e superiori, prima di trasferirsi per l’università a Torino, dove oggi lavora come sviluppatore informatico. Il suo documento di rifugiato politico lo ha fatto vivere come un cittadino di serie B: «Negli anni dell’università non ho potuto viaggiare fuori dall’area Schengen e la burocrazia infinita mi ha impedito di accettare offerte di lavoro in Olanda, Francia e Belgio».

A scuola e in paese i suoi amici erano convinti che avesse già la cittadinanza italiana: «Guardando agli altri Paesi europei ho sempre provato grande frustrazione – ricorda –. Mio fratello è andato a Stoccolma e dopo cinque anni era cittadino svedese». Da noi, invece, il decreto Salvini gli ha messo i bastoni tra le ruote: «Lui e Meloni fanno politica sulla nostra pelle, ma sono convinto che in cuor loro sanno che ci stanno negando diritti che spettano a tutti». Ottenuta la cittadinanza, ha subito richiesto il passaporto: «Finalmente potrò vedere Londra, un sogno di quando ero un bambino».

GREAT, 17 ANNI
“La maglia azzurra è ancora un miraggio, mi piacerebbe rappresentare l’Italia”

L’azzurro è un miraggio per Great Nnachi. Nata a Torino il 15 settembre del 2004 da genitori nigeriani, la saltatrice con l’asta continua a volare sempre più in alto nelle gare italiane, ma non può fare altrettanto in ambito internazionale. Pur risultando italiana per la Federazione internazionale di atletica, non lo è ancora per lo Stato, almeno fino a quando, compiendo la maggiore età, potrà presentare la sua documentazione. Un limbo che prosegue ormai da qualche anno, quando Great ha cominciato a ottenere misure che le avrebbero permesso di rappresentare i nostri colori in giro per il mondo.
Lo scorso weekend, a Rieti, ha saltato 4,25 m, misura che le sarebbe valsa la chiamata per la rassegna iridata giovanile, in programma dal 1° al 6 agosto in Colombia, ma la situazione attuale le impedisce di essere convocata. «Continuo a sperare in un miracolo, ma le speranze sono ormai al lumicino – racconta Great -. Mi pesa non poter indossare la maglia azzurra, ma so che non sono l’unica con questo problema. La cosa più triste è vedere che tanti amici conosciuti in questi mesi andranno a gareggiare per il nostro Paese in ogni parte del mondo e, invece, io non ci potrò andare». Un ostacolo non da poco, una carriera che deve viaggiare con il freno a mano per rispettare la legge, penalizzando le ambizioni sportive.

Spiega: «Nell’ultima uscita agli Assoluti ho migliorato molto il mio personale e senza dubbio potermi confrontare con i miei coetanei di altre nazioni mi aiuterebbe tantissimo a crescere. Invece, mi tocca aspettare ancora. Il mio fratellino Mega, che ha 14 anni e gioca nella Juventus, viaggia più di me, perché nel calcio per sua fortuna funziona diversamente. Spero che presto potrò farlo anch’io: ho già imparato a memoria il calendario internazionale dell’anno prossimo e non voglio perdere altro tempo».

NOURA, 27 ANNI
“Nata in Liguria e sposata a Genova, ma i certificati arrivano dal Marocco”
Non basta nascere in Italia, non basta vivere tra Genova e il savonese 27 anni, parlare con un marcato accento ligure e aver sposato un genovese. Per la legge italiana valgono molto di più 5 anni trascorsi in Marocco. Era una bimbetta Noura Ghazoui quando madre e figli tornarono in patria a imparare l’arabo. Era ancora una bimbetta quando tornarono in Liguria, stavolta per sempre. Giusto il tempo delle scuole elementari era stata via. «L’italiano era una lingua comunque viva per me, dopo il primo disorientamento mi sono messa al passo con gli studi».

Come se non fosse mai partita. Per le leggi italiane però non funziona così. Per chiedere la cittadinanza a 18 anni se si è nati e cresciuti in Italia bisogna avere una residenza continuativa. A lei mancava. Dagli 11 anni in poi per essere in regola ha dovuto chiedere un permesso di soggiorno. Il primo anno la questura stava per negarglielo, il codice fiscale fornito da Noura non corrispondeva a quello dell’Agenzia delle Entrate. Quello di Noura aveva il codice finale di chi è nato ad Albenga, quello delle Entrate aveva il codice di chi è nato in Marocco, anche se non era così. Chiarito l’equivoco, la questura le ha accordato il permesso, per un anno. L’anno seguente ha dovuto ripetere la domanda e chiarire di nuovo l’equivoco. Lo stesso alla maturità.

Ormai aveva 18 anni, non poteva chiedere la cittadinanza, non poteva partecipare ai concorsi, iniziò a lavorare. Finalmente nel 2017 aveva i requisiti per il permesso di soggiorno illimitato. L’ha ottenuto in pochi mesi. Nel frattempo è entrata nell’ufficio amministrativo di una struttura per anziani a Genova, si è sposata, ha avuto un figlio. Le manca solo la cittadinanza italiana. Serve il certificato di nascita che, pur essendo nata ad Albenga, deve chiedere in Marocco. «La prossima primavera andrò», assicura lei. Potrà presentare la domanda. E aspettare per anni la risposta.

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