Sara Manzoli e il suo saggio sulla rivolta a S. Anna
MODENA Sappiamo ancora poco della rivolta dell’8 marzo 2020 che portò alla distruzione del carcere, a nove detenuti morti e a numerose denunce per pestaggi. Le ricostruzioni politiche e giudiziarie, come le indagini ad ora note, appaiono lacunose e spesso suscitano il sospetto che non tutto venga detto. Dopo l’archiviazione dei nove decessi di detenuti, ufficialmente per overdose - in attesa che finiscano le altre inchieste - resta l’indifferenza delle autorità per la più grande strage carceraria italiana dal Dopoguerra. A mettere un punto fermo è Sara Manzoli, modenese e attivista del Comitato Giustizia e Verità, già autrice di un’importante inchiesta sul mondo delle badanti. Ha pubblicato il saggio “Morti in una città silente” (Sensibili alle Foglie Editore) basandosi su fatti solidi: lo presenterà domani alle 18.30 all’Happen (via Canaletto Sud 43).
Sara, l’uso degli psicofarmaci in carcere è un tema di grande attualità ed è un aspetto centrale nella rivolta di Modena. Nove detenuti risultano morti per overdose da metadone e benzodiazepine. Perché sono così importanti oggi in carcere?
«La recente protesta ha portato alla sostituzione di uno psicofarmaco diventato merce di scambio interna al carcere. Parliamo di un luogo in cui le persone vengono private di tutto. Molti detenuti chiedono una visita psichiatrica quando in realtà chiedono subito una prescrizione di psicofarmaci per sedarsi, “stonarsi”, dissociarsi da quel mondo. In realtà, in questo modo i detenuti vengono “psichiatrizzati”: oggi è più facile ottenere psicofarmaci che una tachipirina. E poi metà dei detenuti sono in carcere per reati legati allo spaccio di droga. Se passiamo al saccheggio dell’ambulatorio di Sant’Anna, l’idea che mi sono fatta è che quelli che non partecipavano alla rivolta sono andati all’ambulatorio perché faceva gola, un po’ se li sono trovati a portata di mano per utilizzarli nei giorni seguenti come merce di scambio interna, un po’ per non pensare a cosa accadeva, per fuggire dalla loro realtà».
Lei scrive: “Il carcere come discarica sociale”.
«È così. In carcere finisco i tossicodipendenti, gli immigrati e tutti quelli che sono considerati gli scarti della società, le persone che non vogliamo avere intorno e per le quali non vogliamo attivarci per una reintegrazione reale. I percorsi non esistono, ci sono solo piccoli progetti ai quali possono accedere pochissimi detenuti. Da carcere si esce più incattiviti di prima. È un luogo dove un adulto deve chiedere sempre il permesso a un altro adulto per fare qualsiasi cosa. Non credo che sia il modo per riabilitare le persone. Non si può “infantilizzare” qualcuno rinchiuso in un contesto ben poco dignitoso. E non tutti i detenuti hanno gli strumenti per capire e cambiare vita».
Tra i fatti che non tornano, è centrale il mistero delle telecamere di sorveglianza. Subito le autorità carcerarie avevano detto che erano fuori uso senza spiegare dove, da quando e perché. Poi è saltato fuori che ci sarebbero immagini. Che però nessuno ha mai visto, a differenza di Santa Maria Capua Vetere.
«A Capua Vetere le telecamere sono state determinante per avviare una discussione pubblica. Di queste telecamere di Modena non si è mai avuto conferma e non si sa nulla delle immagini. Sarebbe importante vedere. Nove morti in un carcere sono un triste primato. In ballo c’è una serie di responsabilità che magari sarebbero finite tutte in un fascicolo da archiviare ugualmente. Ma come cittadina mi sarei sentita meglio se le indagini fossero state fatte in maniera più approfondita».
Il libro si intitola “Morti in una città silente”. Modena è una città distratta?
«Modena non ha voglia di occuparsi di ciò che non funziona. È una città che si interessa delle sue eccellenze locali: delle auto, dei ristoranti, dei prosciutti, il balsamico, Vasco Rossi e tutta la gamma del top, ma non ha voglia di scavare nei suoi buchi neri».
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