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Tennis e famiglia, Fabio Fognini: «Questo sono io»

A una settimana dall'avvio degli Australian Open Fabio Fognini è protagonista di un documentario. Dalla moglie Flavia Pennetta a colleghi e avversari passando per il mito Maradona
Fabio Fognini
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Fabio Fognini
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Oltre i limiti, per provare a rompere gli schemi, nonostante tutto e tutti, colpo su colpo. Sul campo, come nella vita. Fabio Fognini, «Fogna (per tutti) is back». Il grande campione di tennis italiano è finalmente rientrato, dopo l’operazione avvenuta il maggio scorso, l’intervento chirurgico a entrambe le caviglie, debuttando al torneo di Adalia, in Turchia, dove ha perso agli ottavi di finale, ed è ora prossimo agli Australian Open, primo Slam stagionale, in programma dal 9 al 21 febbraio.

Un campione vero, Fognini, forse troppo incompreso, genio e sregolatezza, che però continua a dare spettacolo, facendo emergere un talento unico, portato ogni volta all’estremo, al termine di vere e proprie battaglie, magari alla conquista di terre (fatte di cemento o rosse) prestigiose, ben nove, come a Montecarlo, nel 2019, o arrivando, a giugno, tra i migliori dieci giocatori del mondo (oggi è numero 17 del ranking), cosa che non succedeva da più di 40 anni.

A raccontare il personaggio arriva anche un docufilm Fabio – Prendere o lasciare, prodotto da DAO, in onda dal 31 gennaio su TimVision, diretto da Giuseppe Marzo, un vero e proprio viaggio liberatorio, carico d’esperienza, all’interno della sua sfera personale, professionale, in cui, a partire da lui, si confida, attraverso pure dei video-selfie, prima e dopo l’operazione, nei giorni d’attesa, bui, della fisioterapia, nel recuperare e (ri)mettersi in gioco.

Alternando memorie, ricordi, aneddoti privati, la carriera, la famiglia, la sua vita, l’occasione diventa così una riflessione su di sé, riguardo la propria forza, la propria fragilità, diviso tra la notorietà e la solitudine di uno sport, tra Fabio e Fognini, ma soprattutto di una rinnovata consapevolezza di chi invece gli è sempre stato vicino e parla: i genitori, gli amici, da Novak Djokovic, Zanetti, a Christian Vieri, l’allenatore, i preparatori. Fino chiaramente a Flavia Pennetta, moglie, amica, confidente, madre dei suoi due figli, Federico e Farah, l’ultima nata, la prima a palleggiare con lui nella ripresa degli allenamenti, «una consigliera», lo ripete, capace di aiutarlo, «facendomi vedere le cose in maniera diversa».

Partiamo da Flavia.
«Sono stato molto fortunato, lo ripeto, e me lo ripeto, a trovare una persona come lei, con la quale condividere tutto, e che arriva dal mio stesso sport. Sa capire i miei umori, sa starmi sempre accanto».

Mettersi a nudo davanti alla telecamera che effetto fa alla fine?
«È stato difficile, più che altro perché ho dovuto raccontare tanti pezzi di me, da quando ero piccolino, a far parlare gli allenatori, condividendo aneddoti che nessuno sa. L’obiettivo soprattutto era farmi conoscere, così come sono, dalle persone che, o hanno sempre rifiutato e continuano a farlo, o da altri che magari sapevano poco.
Spero si possa vedere, capire, chi sono davvero».

Il sottotitolo è chiaro “Prendere o lasciare”: è proprio così?
«Non mi sono mai vergognato, e non mi vergogno. Nella vita tutti sbagliano, hanno dei momenti bui, e devono reagire per andare avanti. Siamo umani. Io ho sempre fatto parte di uno sport molto solitario, e nello stesso tempo egoista, in alcuni momenti l’ho odiato, lo dico nel documentario, questo ha fatto sì che si vedessero alcuni lati, diciamo “carenti”, quando commettevo degli errori».

Come guardarsi allo specchio e fare i conti.
«Inizialmente mi sono detto “che faccio?”. A differenza di altre volte, questa volta ho seguito i consigli.
È stato anche un lavoro, dove mi sono messo a disposizione, insieme ad altri personaggi conosciuti, sportivi, tra cui Bobo Vieri, Javier Zanetti, Francesca Schiavone, mia moglie Flavia, volevo chiedere pure a Valentino (Rossi, ndr), sotto un altro punto di vista, ma purtroppo era difficoltoso rintracciarlo. Non parlo solo io, ci sono tante voci, tanti volti, che raccontano, e mi conoscono fuori dal campo».

Quanto è stato importante per esempio Bobo?
«Negli ultimi due o tre anni, a Miami, abbiamo trascorso e condiviso parecchio tempo insieme. Lui, e chi compare, mi hanno capito di più, ognuno ha vissuto in maniera diversa ciò che ho realizzato. Bobo è stato uno sportivo di altissimo livello, giocando, nell’Inter, vicino a campioni come Ronaldo: conosce, sa».

Ora come va?
«Ho sofferto parecchio, è stata durissima, perché il Covid mi ha messo in ginocchio. Tutto richiede un tempo, sicuramente non ero pronto a fare risultati, sia fisicamente che tennisticamente, e per mettermi in risalto, sono tornato in campo per cercare di vivere le emozioni, nonostante i nove mesi fermo, l’ultima partita ufficiale risaliva a marzo 2020. Adesso sto bene, mi sto allenando oramai da diverse settimane, e ovviamente non nego che i primi due, tre mesi saranno quelli maggiormente difficili. Come sempre l’obiettivo è quello di essere competitivi quando arriverà la stagione della terra rossa».

Il 2021 sarà comunque un anno ricco di appuntamenti: Slam, Olimpiadi, le ATP Finals di Torino. Cosa insegue?
«Le considerazioni le lascio a quelli forti. Io andrò per la mia strada come ho sempre fatto, e se arriverà qualcosa vuol dire che avrò giocato bene e fatto risultati. L’anno scorso è stato strano, quindi ora bisogna meritarsi tutto».

Nel 2020 è uscito anche Warning. La mia vita tra le righe (edito daPiemme) il suo libro autobiografia.
«È stata abbastanza dura, devo essere sincero, perché volevo fare una cosa, ma a modo mio, come piaceva a me.
Anche qui il desiderio era mostrarmi per come realmente sono, senza dover convincere nessuno. Non sono il tipo.
Dieci anni fa me lo proposero, però allora papà non aveva voluto, mentre ora che sono, come dire, più vicino alla fine della mia carriera, che all’inizio, mi sono detto “perché no”. Una bella avventura, nella quale siamo riusciti a scrivere un mio racconto».

Uno dei suoi momenti più alti d’atleta coincide col successo a Montecarlo. Cosa si prova a tagliare un traguardo così?
«L’aver vinto un torneo del genere è una di quelle emozioni immense, indimenticabili. In finale avevo tutto da perdere, dopo aver battuto Nadal in semifinale, perché poche volte si parte favoriti in un Master 1000, dove in generale arrivi a scontrarti magari con personaggi come Federer, Thiem, Tsitsipas, lo stesso Rafa. A me è capitato Lajovic, che arrivava da una serie di successi impressionanti, avendo battuto Thiem, Medvedev. Alzare una coppa di quel valore è quello per cui ci alleniamo ogni giorno ed andiamo a lavorare, cercando di vivere sensazioni e momenti così».

E poi entrando poco dopo nella top ten, l’essere tra i migliori.
«Un obiettivo sì, e sono riuscito a entrarci sia nel singolo che nel doppio (in coppia con Simone Bolelli, ndr).
Certo possiamo discutere sul fatto che avrei potuto starci sicuramente di più, ma nel frattempo però è arrivato e l’ho raggiunto».

Nel frattempo ha un nuovo allenatore, Alberto Mancini: come sta andando?
«Abbiamo iniziato a lavorare da novembre, era giusto cambiare, perché Corrado (Barazzutti, ndr) non mi dava certe cose di cui allora avevo bisogno. Quando ho avuto il Covid, ci siamo parlati, riuniti, lì ho detto quanto desideravo avere un team accanto che credesse in me, e da quel momento mi sono fidato di lui».

Sui social, dopo la scomparsa di Maradona, ha postato una foto e un video insieme. Che ricordo ha di lui?
«Ci sono rimasto molto male, l’avevo conosciuto in Argentina, ci scrivevamo in privato, lo avevo sentito addirittura prima del suo compleanno. Perdere un’icona del genere è brutto, arriviamo da un periodo in cui sono successe tantissime cose, la Terra si è come ribellata. Io sono cresciuto in un periodo dove mio padre era amico di Altobelli, Beccalossi, è stato ai Mondiali del ‘82, li ha vissuti. Un giorno mi disse: “Fabio guardati i video di Diego”. Appena ho potuto l’ho fatto, comprandomi tutto, iniziai ad ammirarlo. Mi regalò una maglietta della nazionale autografa, è tra gli oggetti, incorniciata, che custodisco maggiormente, nel mentre mi “fregò” una racchetta (ride, ndr). Maradona era un sogno, come lo sono Pelé, Ronaldo, Michael Jordan, come lo era Kobe Bryant, personaggi unici nel nostro mondo».

Fognini, Berrettini, Sonego, Sinner, Travaglia, Caruso, Cecchinato. L’Italia del tennis maschile negli ultimi tempi è ridiventata una potenza internazionale.
«Sono sempre stato il primo a dire che “più siamo meglio è”, l’unica pecca è non essere riuscito a fare qualcosa in più in Coppa Davis, nonostante tutto, nonostante ci abbia sempre messo l’anima. Sarà una delle cose che mi porterò dentro. In certi casi forse non eravamo pronti, quindi spero che, da qui a quando finirò, di avere la possibilità di aiutare, aiutarci tutti, per tornare a essere competitivi».

Ha stupito l’evoluzione di Jannik (Sinner, ndr)?
«Ognuno ha la propria maturazione, ma sono certo che nei prossimi dieci anni, tra lui, Lorenzo Musetti, e gli altri ragazzi, ci sarà davvero da divertirsi».

L’augurio pensando al futuro?
«La salute, prima di tutto, è quello che conta di più».

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