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A Kashgar, viaggio nella terra degli Uiguri

Kashgar è uno di quei luoghi che non ti aspetti, a cui non sarai mai pronto sebbene le letture, le informazioni, i documentari, i discorsi. Kashgar è un luogo che cambia velocemente, giorno dopo giorno. Ti affascina e ti confonde, ti incuriosisce e ti spaventa, ti spinge alla frustrazione, alla ricerca di risposte, di domande […]
Nella terra degli Uiguri
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Nella terra degli Uiguri

Kashgar è uno di quei luoghi che non ti aspetti, a cui non sarai mai pronto sebbene le letture, le informazioni, i documentari, i discorsi. Kashgar è un luogo che cambia velocemente, giorno dopo giorno. Ti affascina e ti confonde, ti incuriosisce e ti spaventa, ti spinge alla frustrazione, alla ricerca di risposte, di domande e di spiegazioni.

Kashgar, nella regione dello Xinjiang, è la città Cinese più occidentale del paese, si trova in un area pianeggiante tra il deserto del Taklamakan, le montagne del Pamir e quelle del Tian Shian. Per farsi un idea migliore della posizione basti pensare che è più vicina a Tehran che a Pechino e non solo in termini di distanza…

Non poco lontano dalla fertile valle in cui si trova ci sono i confini con Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Afghanistan, Pakistan e a nord Russia e Mongolia. Insomma, non ci si stupisce se questa città, oggi abitata da 500.000 persone è stata per duemila anni un affollato centro di commercio, una delle più importati stazioni lungo le vie mercantili tra Xi’An e l’Occidente. Un’ impero dietro l’altro ha cercato di conquistarla con più o meno fortuna, dalle dinastie imperiali Cinesi a quelle Mongole, dai Tibetani ai Turchi.

A KASHGAR
Era fine maggio di un paio di anni fa, stavo accompagnando un gruppo in viaggio lungo la Via della Seta, quella non era solo la mia prima volta nella regione di Xinjiang ma anche la prima volta che mettevo piede in territorio Cinese.

Dal primo Checkpoint arrivando dal Kirghizistan ed avanzando attraverso i 200 km di no-man land su una striscia di asfalto circondata da montagne di roccia rossa fummo fermati talmente tante volte che smisi di contarle. Impiegammo una giornata intera e nove checkpoints. La temperatura corporea fu controllata diverse volte così come i bagagli, i telefoni e le sim card furono scansionati a fondo. A quel punto Il governo Cinese sapeva chi eravamo, dove eravamo e cosa stavamo facendo.

Finalmente arrivammo a Kashgar. Per la strada la nostra guida locale mise le cose ulteriormente in chiaro, come se c’è ne fosse bisogno: «Per favore non fatemi domande a cui non posso rispondere, non fatemi parlare di questioni di cui non dovrei parlare». Benvenuti a Xinjiang, la più calda, la più Occidentale e perseguitata regione Cinese.

Nove anni fa il governo Cinese proclamò inagibile la città vecchia, abbarbicata su una collina bassa che sorge nel centro della città moderna. Le case pericolanti di mattoni di fango sembrano reggersi in bilico sulle sponde franose e ghiaiose che scendono su prati di erba alta e verdissima. Il pesante terremoto del 2003 fu l’apparente motivo per rimuovere la popolazione locale da case familiari centenarie e spostarle in una nuova città «vecchio stile» che ricorda tanto un villaggio di Disneyland. Il cuore di Kashgar che per millenni ha resistito ad invasioni, scontri, calamità naturali è stato reso «inagibile» e «non sicuro» e  nel 2009 il governo Cinese annunciò la demolizione della città vecchia ed il successivo trasferimento della popolazione. Le vie della città nuova sono pulite, larghe, ariose. Le chiome dei tigli in estate regalano ombra e brezza, tanto necessarie nelle caldissime giornate estive. Negozi di souvenir in giada scadente si alternano a bancarelle ordinatissime di spezie, strumenti musicali locali, chitarre a due corde e coffeshop. Samsa (fagottini ripieni di carne) vengono cucinati lungo i vicoli nei tradizionali forni di terracotta (cugini dei tandoori Indiani) e ciotole colme di lagman, nutriente, confortante e deliziosa zuppa di vermicelli, verdure e carne, passa di mano in mano in ristorantini affollati e chiassosi.

Sembra quasi un piacevole luogo da visitare, quasi mi dimentico dei campi di concentramento, della popolazione strappata dalle proprie case, dei passaporti ritirati e dalle centinaia di poliziotti che sorvegliano ogni angolo. Non sono interessati a noi viaggiatori, sebbene gli sguardi di curiosità non manchino e sebbene passiamo attraverso body scanners decine di volte al giorno. Sono gli Uiguri ad essere fermati, interpellati, ispezionati pesantemente, ogni volta che escono di casa, ogni volta che si muovono tra le vie di questa «finta» città.

Quella antica ed originale, quella che somiglia ad un antico villaggio del Centro Asia, tra il blu del cielo e quei prati verdissimi, è sempre lì e cattura la mia attenzione ora dopo ora. Molte famiglie resistono, vivono ancora tra le rovine abbandonate di alcune case con l’ansia costante di essere «invitate» con la violenza ad abbandonare le loro abitazioni.

Attorno al perimetro della città vecchia vi sono quattro ingressi, tutti attentamente sorvegliati da guardie dal mattino fino al calar della notte. Tengono lontani gli stranieri curiosi. Più volte cerchiamo di eludere la sorveglianza ma io e la mia collega russa veniamo fermate. Dopo lunghi snervanti tentativi un ufficiale alto, dai tratti turchi e dalla pelle scura si lascia sfuggire quello che sarà il nostro lascia passare: «Alle 9 di sera le guardie se ne vanno a casa». Salutiamo le guardie, ci incamminammo verso la città nuova e con la mia amica ci scambiamo uno sguardo d’accordo.
Gli Uiguri sono un gruppo etnico di origine turcofona. Parlano una lingua simile a quella parlata in Uzbekistan, Kazakistan o anche in Tatarstan (Russia) o ancora in Azerbaijan. Sono musulmani e, come gran parte delle popolazioni che vivono lungo la tratta principale della Via della Seta presentano caratteristiche facciali uniche ed estremamente eterogenee: occhi che vanno dal verde intenso al nero, capelli nerissimi o castani, quasi color rame, alcuni volti presentano tratti estremamente caucasici, altri più asiatiche. Le signore anziane passeggiano negli affollati mercati della domenica indossando coloratissimi e lunghi abiti dalle fantasie atlas (pattern caratteristico di queste zone) e lunghe trecce nerissime.

Gli Uiguri vivono nella paura, sono e sono stati perseguitati per secoli dalle varie dinastie e dal governo Cinese.

Poche ore più tardi il taxi ci scaricò di fronte all’ingresso della città nuova, avvolta in luce e colore scintillanti nella notte scura ma ancora tiepida di fine maggio. Aspettammo che la macchina ripartisse e ci voltammo dalla parte opposta dirigendoci verso la collina pericolante e buia della città vecchia.

Come previsto le guardie avevano lasciato le loro postazioni. Salimmo una scalinata stretta e ripida che trovammo quasi nascosta tra un alta abitazione e un negozi di vasi. Camminavamo velocemente per non dare troppo nell’occhio, l’oscurità aiutava ma non abbastanza, poche persone camminavano o guidavano scooter lungo gli stretti vicoli polverosi lanciandoci occhiate incuriosite che duravano per qualche secondo.
Le viuzze si contorcevano tra rovine di case nelle quale si poteva scorgere ancora l’arredamento interno; credenze, sedie, tavoli avvolti nella polvere e nelle macerie. Era buio, solo poche luci rischiaravano le vie. I nostri occhi si abituarono presto. Eravano in modalità d’allerta, non sono stati molti gli stranieri che si sono avventurati nel cuore originario di Kashgar negli ultimi anni e l’ansia di essere fermate ed interrogate dai tanti «controllori» in incognito ci faceva percorrere quella che sembrava la via «principale» di questo labirinto polveroso in fretta, cercando di captare il più possibile sensazioni, odori, rumori… tra i grovigli di fili elettrici e i muri alti e lisci intravedevamo le luci, il traffico e udivamo il costante suono delle sirene della polizia in lontananza nella città nuova.

Una voce attirò la nostra attenzione, il suono era di una lingua a noi poco «familiare», né cinese, né araba.
Un ragazzino si avvicina e in un inglese singhiozzante ci fa capire che non dovremmo essere lì, che è troppo pericoloso. Mohammed dimostra meno dei suoi 18 anni, ci dice che sta studiando per diventare poliziotto e vive poco distante da lì, nella cuore della città vecchia, con tre fratelli ed il padre. Con le sue poche parole di inglese Mohammed ci racconta la sua vita e quella della sua gente.

Passammo un’ora con Mohammed, un’ora densissima di domande, paura, frustrazione e curiosità. Ci accompagnò nella sua casa. Le poche persone che incontrammo ci fissarono e fissarono Mohammed, di nuovo, con sguardi fuggevoli, acuti, di pochi secondi e poi le teste si abbassavano nuovamente al suolo. Il nostro nuovo amico ci disse che in passato ci si parlava tra vicini, si era aperti ed amichevoli. Oggi gli sguardi non si incontrano più, ci si muove a passo spedito e testa bassa dalla casa al luogo di lavoro nella sola compagnia della paura di dire troppo o vedere troppo.

Mohammed ci indica dei cartelli plastificati appesi al muro con foto di volti poco sorridenti dai tratti Uighur. Mostrano cittadini che si prestano al governo Cinese per pattugliare quartieri della loro stessa città, controllando che tutto sia in ordine, esattamente come vuole il governo cinese. Si incontrano spesso, quasi marciare in fila indiana, un bastone in una mano e una fascia rossa sul braccio, lo sguardo che si muove inquisitorio tra i vicoli, le bancarelle e i cortili affollati di bambini giocosi. Non riesco a smettere a pensare al rischio che stiamo correndo, tutti e tre. Io, la mia amica ma soprattutto Mohammed, raccontandoci storie e realtà dietro quella città rosa di souvenir e tigli profumati.

Lungo la strada ci indica una via attraverso la quale potremmo arrampicarci con la luce del giorno ed accedere di nuovo alla città. Ci mostra una piccola moschea, chiusa da tempo come tutte le altre nel territorio della provincia. Gli Uiguri non hanno più il diritto di pregare, nemmeno a casa loro. Il culto e la preghiera sono elementi fondamentali della vita di ogni Musulmano, vietandoli è come rubare una gran parte della loro identità.

La casa di Mohammed ha 80 anni, è un edificio a due piani con mattonelle lucide e tende colorate. Le scale per salire al secondo piano, una volta abitato da affollate famiglie congiunte, sono ripide e strette, il legno scuro è ancora lucido. Il padre e i fratelli stanno dormendo in una delle poche stanze che ora utilizzano, una tv è rimasta accesa riverberando luce e suoni lontani. Il resto della casa si trova nell’oscurità più totale. Le porte sono state blindate e gli eleganti mobili di legno scuro coperti da pesanti teli.

Ogni casa nel centro Asia, dalla Turchia al Turkestan cinese ha una stanza, la più grande, la più sfarzosa, decorata con carta da parati perlata, credenze alte, servizi di ceramiche dai motivi tradizionali, tappeti lisci, dai colori brillanti e cuscini soffici. Queste stanze sono usate per gli eventi importanti, le celebrazioni, le feste religiose, i matrimoni… Nella casa di Mohammed, come in tutte le altre, questa stanza è stata chiusa dalla polizia dopo una perquisizione. Non c’è più niente da festeggiare in questi giorni.
Nella stanza di Mohammed pallidi riquadri ai muri ora vuoti catturano la nostra attenzione, suggeriscono foto e quadri una volta appesi. Ora la piccola stanza vuota ospita solo tappeti colorati e cuscini sui quali dormire.

Scopriamo che i genitori di questo ragazzino sono stati arrestati più volte, la madre è ancora in uno di quei «campi rieducativi» come i Cinesi chiamano i campi di deportazione sparsi nella provincia. Tutti gli averi sono stati tolti alle famiglie più benestanti, i passaporti ritrati a tutta la popolazione di etnia Uigura ora imprigionata nella sua stessa terra d’origine. Mohammed ci racconta dei sui compiti giornalieri, la casa la porta avanti lui ora mentre il padre lavora. Pulisce, cucina, si occupa dei fratelli più piccoli e studia, in una scuola dove il cinese è l’unica lingua permessa. Lui ama studiare e ne è particolarmente fiero. Con tristezza e una punta di rabbia ci racconta di come la vita scorreva bene in passato e di come la gente fosse felice e camminasse con gli sguardi alti quando c’era ancora un briciolo di libertà.

Giorno dopo giorno la situazione è peggiorata. Per quei «fortunati» che non sono stati deportati ci sono costantemente nuove regole, nuove restrizioni. Si vive nella paura costante in una realtà in cui si è perseguitati a causa della propria identità culturale, religiosa, linguistica. Gli Uiguri non possono lasciare il Paese ma anche la città e in alcuni casi anche la propria casa. Vengono perquisiti, la carta d’identità perennemente richiesta, corpi ed oggetti scannerizzati. Il tutto in quella che per 4000 anni (per alcuni storici anche di più) è stata la loro terra. Ogni volta che lo sguardo si alza dalla strada incontra un paio di telecamere di sicurezza poste ad ogni angolo, i telefoni cellulari vengono intercettati e le chiamate internazionali sono proibite, un pò come tutto ciò che proviene dal di fuori della regione. Le scuole sono circondate da filo spinato che ne rincorre il perimetro appena al di sopra di muri dipinti a farfalle ed animali colorati.

Uscendo dalla casa Mohammed ci mostra quel che rimane dei simboli Islamici di legno che una volta apparivano sulla porta. Sono stati strappati via, al loro posto rimangono solo delle silhouette pallide a suggerirne la forma. Ci accompagna giù, verso la strada principale. Ferma un taxi e tenta di pagare con l’unica banconota da 100 Yuan che gli esce dalla tasca (all’incirca 12 euro). Lo fermiamo sebbene conosciamo bene le usanze Islamiche nei confronti degli ospiti, dopo un selfie in compagnia anche dell’autista del taxi salutiamo Mohammed e ci diamo appuntamento per il giorno successivo. A quel punto sapevamo che forse non ci saremo mai più rivisti.
Era quasi mezzanotte, il taxi correva velocemente lungo strade illuminate a giorno ma deserte se non per la pesante presenza della polizia. In soli dieci minuti fummo fermati tre volte. Un mix di emozioni ci accompagnò al nostro grande, impersonale, freddo hotel da 18 piani dove nessuno parla una parola d’inglese e una musica rilassante suona 24 ore su 24 nei corridoi. Il giorno seguente seguimmo le istruzioni di Mohammed per trovare un passaggio ripido dietro una piccola discarica che porta direttamente sulla strada principale della città vecchia. Sotto la luce del sole è ancora più rischioso e lo sappiamo bene. Camminiamo velocemente, dando l’impressione di sapere dove andare. Di nuovo, sguardi sfuggevoli, niente parole. La porta della casa di Mohammed è aperta, facciamo scivolare una busta con all’interno un messaggio e ritorniamo indietro. Mohammed non ha un indirizzo mail, non può. Non può ricevere nulla e non può avere nessun tipo di contatto con il mondo «esterno».

Non incontreremo più il nostro coraggioso amico, non sapremo mai se riuscirà ad ottenere un passaporto, se rivedrà più la madre, se avrà ancora lussureggianti banchetti nella stanza delle celebrazioni, se pregherà ancora nella moschea del quartiere. Lascio Kashgar e sulla via di ritorno verso il confine con il Kirghizistan scopriamo che altri checkpoints sono stati aggiunti.

Gli eventi sopra descritti accadevano nell’estate del 2018, da quel momento il governo Cinese ha introdotto ulteriori regolamentazioni e restrizioni per limitare la libertà culturale, religiosa, sociale dell’etnia uigura nella regione di Xinjiang. Ritornai in quelle zone nel maggio e poi nel settembre 2019. Secondo Amnesty International oltre un milione di persone sono detenute arbitrariamente in campi di «de-estremizzazione» nella regione autonoma dello Xinjiang. Uiguri di qualsiasi fascia d’età, stato sociale, sesso, sono stati incarcerati in questi luoghi dove subiscono torture, abusi, «lavaggi del cervello» e lavoro forzato in condizioni disumane. Alcune testimonianze parlano di «genocidio demografico» con sterilizzazioni forzate delle donne uigure. I passaporti sono stati ritirati a tutti gli uiguri. Circa un milione e mezzo di uiguri vive all’estero, senza poter tornare dalle proprie famiglie. Nel 2019, gli ambasciatori delle Nazioni Unite di 22 Paesi hanno firmato una lettera condannando gli eventi in Xinjiang e chiedendo al governo cinese di chiudere i campi di detenzione.

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