Questo articolo è pubblicato sul numero 5 di Vanity Fair in edicola fino al 2 febbraio 2021
Seduta su una panchina di piazza Cavour a Roma, Christiane Filangieri indossa la sua tuta d’ordinanza e osserva i tentativi di corteggiamento di un piccione verso una piccioncina riottosa. Una palma lì davanti placa le voglie napoletane del suo sguardo e del Dna paterno. Mentre il cielo nuvoloso parla al suo sangue boemo sudeto austroungarico (guai a dire «tedesco») ereditato da mamma Sissi, pittrice di icone sacre. «Io sono un orso solitario, praticamente una vecchietta in modalità lockdown da sempre», dice di sé l’attrice nata a Würzburg nel 1978 da famiglia di nobile lignaggio, cresciuta tra il Brasile e il Matese campano ed entrata nelle case degli italiani da tante porte diverse: uno spot Tim diretto da Daniele Lucchetti, un terzo posto a Miss Italia, e poi una moltitudine di ruoli nelle fiction più amate: da Il paradiso delle signore a I Cesaroni, da Don Matteo a Il commissario Ricciardi. Fino alla parte di Irene, avvocato inscalfibile e pieno di segreti per le dodici puntate di Mina Settembre, in queste settimane su Raiuno. Madre di un bimbo di otto anni e moglie dell’immobiliarista Luca Parnasi, vive a Roma in una dimora stupenda appartenuta negli anni Trenta a un gerarca del Duce: «Da piccola sognavo di fare l’arredatrice», racconta. «Di questa casa ho scelto tutto, fino all’ultimo bullone».
Tra i personaggi di Mina Settembre c’è un ginecologo che fa strage di cuori tra le pazienti. Ma capita davvero?
«Guardi, se devo pensare al medico che ha seguito me in gravidanza, più che un amante rappresentava il nonno che tutte sogneremmo di avere. In caso di ambiguità, le assicuro, avrei cambiato specialista. Ma c’è anche da dire che il ruolo lo interpreta Giuseppe Zeno, sul quale alcune mie amiche hanno avanzato commenti lusinghieri. Credo che in Rete giri anche un meme con scritto “Ringraziamo la regista per la scena in cui Zeno apre la porta a torso nudo”. Se c’è un bel ragazzo, a rifarsi gli occhi non c’è nulla di male».
Ammetterà però che alcune donne della sua generazione appaiono facilmente scaldabili, specialmente sui social. E consorti e fidanzati, a cui si chiede di comportarsi sempre da galantuomini, non sempre gradiscono.
«Guardi, per farle capire come la penso, le dico solo che i miei modelli femminili sono Grace Kelly e Audrey Hepburn. Non amo la donna sfacciata, magari volgare, che si incattivisce sul lavoro per affermarsi. Non amo le donne che si prendono un uomo senza pensare alle conseguenze o alla situazione familiare in cui si trova, o quelle che cominciano una storia avendo pronte una pletora di opzioni di riserva in panchina, in caso le cose andassero male. Con le amiche, in fatto di sentimenti, mi trovo spesso a far la parte del grillo parlante».
E loro?
«Dicono che sono una vecchia rompiballe».
E lei?
«Insisto. Quando ho compiuto quarant’anni ho giurato a me stessa che avrei detto sempre la verità».
Irene, il suo personaggio, appare agli occhi di tutti invincibile. Lei, se è il caso, è capace di crollare senza pudore?
«Ma sì, assolutamente, evviva la vita. Essendo una persona riservata però mi concedo il crollo davanti a poche persone: mia madre, mia sorella e mio marito. Sono loro il mio porto sicuro».
Oltre ai suoi cani Rocky e Apollo. L’immagine di lei, bionda e statuaria, in giro per il quartiere Parioli con due bassotti di razza, non la trova sfacciatamente borghese?
«Ma chi, io? Che porto a spasso quelle due pulci con la tuta da ginnastica addosso? Guardi, per farmi felice nella vita ci sono tre modi: portarmi in uno showroom di arredamento, a cena o in libreria. Dei vestiti non m’interessa nulla, e vado a comprarmi delle cose solo una volta all’anno, finita lì. Quando ho fatto Miss Italia è stata mia sorella a obbligarmi ad andare a Caserta ad acquistare due completini carini. In un negozio, dopo dieci minuti, sclero».
Anche in gioielleria?
«Non me ne può fregare di meno. Tra un brillocco e una birra, io scelgo la birra».
La tavola è il suo tutto, quindi.
«Pensi che un collega una volta ha detto: se incontrate la Filangieri scappate, perché appena vede carne, quella azzanna. Mi piace la cucina casalinga e impazzisco per i cestini che danno sul set, che tutti invece schifano. Amo aprire le scatolette e trovarci dentro la pasta scotta, le cose fredde. È capitato pure che andassi a trovare amiche in ospedale e portassi loro la cena da fuori, per potermi finire al posto loro il riso bianco e il purè offerti dall’ospedale. Mi ricorda gli anni di bambina, in Brasile, quando mangiavo la feijoada nelle favelas».
Che c’entra lei, di famiglia nobile, con le favelas?
«Mio padre si occupava di import-export e vivevamo a Embu das Artes, vicino a San Paolo. I nostri caseros, i custodi, vivevano nella favela, e io ho passato l’infanzia a giocare coi loro figli. Facevamo le polpette con la fanghiglia e giocavamo con gli aquiloni: io e mia sorella, biondissime, insieme a loro tre, parevamo usciti da una foto di Oliviero Toscani».
Nel paese dove ha raggiunto la maggiore età, San Potito Sannitico, avevate una casa o un castello?
«Un antico possedimento di famiglia, Palazzo Filangieri, ereditato da mio padre. Gli abitanti del paese credevano che lì dentro stessi vestita come una principessa, tra drappi e specchi, e invece c’erano così tanti spifferi che dovevo studiare con due maglioni addosso, i calzettoni e il cappello di lana. Per poterci riscaldare, molte stanze restavano chiuse per tutto l’inverno».
E lei sognava o aveva paura?
«Quando venivano a dormire le amiche il nostro gioco preferito era correre da una stanza all’altra a luci spente, specialmente d’estate, quando nei corridoi potevi imbatterti nei pipistrelli. Poi allestivamo la nostra capanna in giardino, nella voliera vuota degli uccelli, e usavamo le candele per cuocere il cibo rubato dalla dispensa. La mia vita è stata questa: niente discoteca, niente struscio in piazza, solo fantasia. Con addosso il nome che mi avevano affibbiato le donne del paese: Cristianella».
E ora, i corridoi di Palazzo Filangieri sono abbandonati?
«Papà non c’è più e ci vive ancora mia madre, che continua a disegnare le sue icone russe su vetro. Interpretando i compositori tedeschi col pianoforte a coda in salone. Quando le domando per chi suoni, da sola in quelle stanze gelate, mi risponde sempre allo stesso modo: lo faccio per i nostri fantasmi».