Questo articolo è pubblicato sul numero 46 di Vanity Fair in edicola fino al 17 novembre 2020
I toni millenaristici con cui è stata accolta la vittoria di Joe R. Biden alle presidenziali americane, le lacrime degne di chi fosse sfuggito a un sequestro di narcotrafficanti, i richiami irrispettosi, per restare nell’eufemismo, alla Liberazione dal nazifascismo, che fu forse la massima tragedia del Novecento, e non la tragicommedia degli ultimi quattro anni alla Casa Bianca, sono la premessa più spettacolare alla sopravvivenza del trumpismo, se non a quella di Donald J. Trump. La liquidazione facilona del successo del tycoon – elezione nel 2016, mancata rielezione di non molto nel 2020 –, come se tutto si riducesse alla mascella volitiva e al ciuffo arancione che sfida le leggi della fisica e della convivenza democratica, è la solita rimozione boriosa del mondo progressista. All’ombra di quel ciuffo ci sono settanta milioni di americani, e secondo me sbagliano ma non sono settanta milioni di imbecilli, di razzisti, di analfabeti. C’è chi ha apprezzato la politica economica di Trump, qualcuno avrà apprezzato la sua buona politica mediorientale, e molti avranno tracciato la loro preferenza sulla scheda con senso di rivincita o ribellione verso il politicamente corretto in ogni sua declinazione e deriva. Oggi, scrive Alessandro Barbano, la battaglia fra globalismo e populismo non è più tanto fra centro e periferie, ma è una faida che anzitutto spacca le élite, quelle socialmente presentabili contro quelle impresentabili. Il problema finale è che nessuna delle due è disposta a riconoscere la legittimità dell’avversario, ne fa una questione prebellica, e l’unica chance che ha Biden di essere un grande presidente è rompere il gioco infernale, e riunificare il suo grande Paese.