Un’ora di corsa continua con quattro settimane di allenamento. È la sfida lanciata da Gelindo Bordin, indimenticabile oro olimpico alla maratona di Seul ’88, e Diadora, storico brand sportivo made in Italy. «È un programma indirizzato alle persone che non hanno mai corso e che non sono abituate a fare attività fisica», ci racconta l’ex campione azzurro, classe ’59. «È nato un po’ per scommessa: dimostrare anche ai più sedentari che seguendo una determinata tabella riescono in un mese a raggiungere traguardi che non avrebbero mai immaginato. E tutto senza sentire la fatica».
In che senso?
«Il problema principale di chi si approccia alla corsa è pensare all’inizio di andare troppo piano. Quindi aumenta l’andatura e va incontro a due rischi: smettere perché sente troppo la fatica oppure, ancora peggio, farsi male. L’obiettivo di questo programma è arrivare in fondo alla seduta e pensare “è tutto qui?”».
Che sentori si possono usare per capire se il passo è quello giusto?
«Dobbiamo essere in grado di parlare mentre corriamo, questo è il metro per misurarsi. In quel caso significa che non stiamo superando i 120/130 battiti e arriveremo alla fine non affaticati. Ad ogni modo mai partire a razzo, serve sempre cautela quando si comincia».
Cosa pensa della musica durante la sessione?
«Sono assolutamente a favore, è bello farsi accompagnare dalle melodie, l’importante è che non diventi una droga. A volte infatti è meglio ascoltare il proprio corpo e non distrarre il cervello dalle attività muscolari. Comunque anch’io correvo spesso con il walkman».
Cosa ascoltava?
«Ricordo che era pesantissimo, la cintura provocava delle belle vesciche. Io adoravo Bruce Springteen e i Queen: la mia canzone preferita per gli allenamenti era “Growin’ Up”, mentre prima delle gare mettevo sempre “A kind of magic”, con lo storico verso “No mortal man can win this day”».
Lei di vittorie ne ha collezionate parecchie: le collega ad allenamenti particolari?
«Prima delle Olimpiadi ricordo le durissime ripetute sui 7km in Valle Argentera, al Sestriere. Poi ad Alamosa in Colorado, a 2300 metri: lì ho costruito il trionfo alla maratona di Boston (unico italiano a riuscirci, ndr). Sono molto affezionato pure alle corse in pineta a Tirrenia, dove ho vissuto dal 1984 al 1993».
Come si è trasformato il metodo di allenamento dai suoi tempi ad oggi?
«Una volta i giovani si allenavano meno: anch’io fino a 18 anni facevo “solo” 5 sessioni a settimana. Se parliamo invece di atleti adulti, le cose non sono cambiate poi molto: la mia generazione infatti è stata fortunata, la grande evoluzione c’è stata negli anni 70 e primi anni 80».
Che tipo di evoluzione?
«Gli atleti di quel periodo hanno sperimentato tanto e noi, che siamo arrivati subito dopo, ne abbiamo tratto i benefici. Non solo riguardo alla corsa, per esempio la dieta dissociata: si era scoperto che aveva più svantaggi che vantaggi».
Resta però il grande dilemma se prediligere la potenza o la resistenza.
«Dipende dalla filosofia dell’allenatore e dell’atleta: oggi si tende a mettere davanti la resistenza. Pure io diedi molto più spazio alla corsa lenta rispetto alla velocità, ma le qualità elastiche – che poi ho ripreso – sono importanti. Bisogna trovare l’equilibrio».
Il materiale invece è cambiato molto?
«Sì, tantissimo. La mia generazione è partita con scarpe che oggi si vendono – come dico sempre – per andare a messa. Negli anni 80 è aumentata l’ammortizzazione e poi, a seguito delle tante tendiniti, pure il differenziale tra tacco e punta, per affaticare meno il tendine d’Achille».
Poi è arrivata la tecnologia.
«Soprattutto per migliorare la qualità dell’intersuola. Diadora ha seguito il percorso da subito e tre anni fa abbiamo tirato fuori l’innovativa tecnologia Blushield che minimizza l’asimmetria di appoggio tra piede destro e sinistro, così da tenere in asse il bacino».
In una maratona, quanto contano tutte queste componenti?
«In gare così lunghe l’equilibrio è sottilissimo: abbiamo zuccheri per circa un’ora e mezzo quindi devi distribuirli bene, se li consumi tutti poi vai a grassi ed è la fine. Il passaggio più duro è il 38esimo chilometro, devi saperti amministrare».
Entra in gioco la testa insomma, per i professionisti come per gli amatori.
«A Seul andò proprio così: nel finale eravamo rimasti in 4, Salah tentò lo sprint al km-39 ma io lo lasciai andare perché sapevo che non sarebbe arrivato in fondo con quel ritmo. Avevo ragione, infatti lo ripresi e vinsi l’oro».
Il trionfo di un campione unico. In uno sport – la corsa – che se praticato con cautela può essere per tutti.