La razza umana è stupida e scalognata. Non potrebbe essere altrimenti, visto che è l’unica a essere consapevole della propria mortalità e l’unica che, pur di non affrontare quel pensiero così angosciante e ineluttabile, ha preferito inventarsi la speranza, illudendosi che tutto, prima o poi, volgerà per il meglio. È questa la premessa dalla quale lo sceneggiatore premio Oscar Charlie Kaufman parte per presentarci Sto pensando di finirla qui, il suo terzo film da regista che arriva su Netflix il 4 settembre e che è probabilmente uno dei titoli migliori di questo 2020 che ha sofferto della chiusura delle sale e delle distanze da mantenere. Sto pensando di finirla qui, che è tratto dall’omonimo romanzo di Ian Reid, pubblicato in Italia da Rizzoli, è un film complesso, esasperante e disturbante: dai titoli di testa ai titoli di coda, scritti in un carattere così microscopico da portare allo sforzo anche lo spettatore con la vista più acuta che ci sia, il pubblico è chiamato non tanto a seguire, quanto a interpretare quello che succede, a chiedersi dove Kaufman lo stia conducendo, se nel sogno o nell’incubo, nella metafisica o nell’immaginazione più sfrenata.
https://www.youtube.com/watch?v=8ty9FEEabhcLa protagonista (Jessie Buckley) è una ragazza con i capelli rossi e una sciarpa gialla che, in una giornata di neve, accetta di malavoglia di conoscere i genitori del fidanzato Jake (Jesse Plemons), con il quale si frequenta da sette settimane. In questa prima parte del film, che dura poco più di venti minuti, siamo nell’abitacolo dell’automobile, dove entriamo in contatto con i pensieri della fanciulla, che va a conoscere i suoceri ma che in realtà sta solo pensando di finirla lì, e del compagno che è concentrato sulla guida ed è impegnato allo stesso tempo a decifrare quello che le passa per la testa. In un incastro di battute e di citazioni che sembra uscito da un film di Linklater e che Kaufman riporta quasi fedelmente dal libro, entriamo così nel secondo atto, ossia l’incontro con i genitori. Nonostante la premessa faccia molto Ti presento i miei, capiamo subito che qualcosa non va. I genitori di Jake, interpretati dagli straordinari Toni Collette e David Thewlis, hanno qualcosa di storto, che non quadra: se ne accorge la protagonista e se ne accorge lo spettatore che, a questo punto, è più o meno pronto a tutto, anche al fatto che il film possa trasformarsi da drammatico a thriller, con gli stessi protagonisti in pericolo di vita.
Se fossimo in Inception sarebbe questo l’istante nel quale ci accorgiamo che il sogno sta crollando, letteralmente e figurativamente. Sì, qualcosa si rompe. Non solo il patto di realtà e di verosimiglianza, ma anche il dubbio che, d’ora in avanti, saremo noi a dover ricostruire quello che vediamo pur non riuscendoci davvero. Kaufman è astuto: ci mostra una serie di sequenze, alcune cruciali e altre fini a loro stesse, riportandoci alla premessa iniziale dell’inutilità e della malasorte. Poi una citazione di Oscar Wilde ci apre un varco: «La maggior parte delle persone sono altre persone». E allora qualcosa si muove, e capiamo che le intenzioni del film sono molto più bergmaniane di quanto non sembrassero all’inizio. La sceneggiatura lo rimarca ricorrendo a citazionismi ed excursus medio-alti, mentre l’impianto scenografico, sottolineato dalla straordinaria fotografia di Lukasz Zal, ce lo suggerisce passando dal bianco della neve all’oscurità della notte, da sequenze di cartoni animati in bianco e nero a un meraviglioso balletto sulle note di Many a New Day eseguito dai ballerini classici Unity Phelan e Ryan Style. La scena, una delle più suggestive del film, è l’ennesima chiave dell’ennesimo messaggio che lo spettatore di Sto pensando di finirla qui non è sicuro di aver capito davvero. Ma, d’altronde Kaufman, che aveva già scavato la mente umana in Se mi lasci ti cancello e in Essere John Malkovich, vuole proprio questo: disorientarci e chiamarci all’attenti. Perché, in fondo, siamo creature mortali e speranzose e tanto vale mettere a frutto il tempo che abbiamo a disposizione per decifrare e metabolizzare quello che vediamo.