Per prima cosa attraverso il paese, Melpignano, in pochi minuti.
La gente è seduta fuori dalle porte delle case, la musica nell’aria ancora non si sente, c’è qualche transenna e pochi uomini della polizia locale ad accertarsi che chi oltrepassa i varchi ne abbia davvero il permesso, e indossi la mascherina.
Cammino lentamente, osservo un paese che, in tutti gli anni in cui sono venuta ad assistere al Concerto della Notte della Taranta, non ho mai davvero visto da vicino, immerso com’era nella confusione.
Una confusione piena di vita, e di festa.
Alla fine di via Roma compare la chiesa. Come un’apparizione, davvero. La chiesa della Madonna del Carmine e il Chiostro del Convento degli Agostiniani. Illuminati, accesi dalle luci delle luminarie e da quelle della regia televisiva per cui il concerto, quest’anno, è pensato e organizzato.
Per la prima volta, dopo tante edizioni passate sotto il palco della Notte della Taranta, alto e imponente, un palco che negli anni ha accolto tutti come una madre generosa, quest’anno riesco a vedere anche cosa c’è intorno.
Edifici barocchi, strutture salentine allo stato puro. Melpignano è cresciuta negli anni grazie al concertone, a questa manifestazione che qui ha messo radici. Anzi meglio, che da qui è stata generata.
Il palco davanti al quale mi ritrovo – senza pubblico a causa della pandemia – è totalmente diverso da quelli degli anni precedenti: è una piattaforma bassa, di legno, che nella forma ricorda un tamburello. Una zattera solida, che mi farà viaggiare.
Preparati, mi dico. Tutti intorno a me si stanno preparando: i musicisti hanno tra le mani gli strumenti, i ballerini scelgono la posizione d’apertura, Paolo Buonvino, il maestro concertatore, è fermo al centro della scena, scalzo e fremente. Il silenzio, inaspettato per questa festa, riempie lo spazio intorno e quando parte la prima nota di una musica che conosco – che conosco a memoria per tutti gli anni che proprio qui, in questo paese, in questo spazio di terra, ho sentito – l’emozione mi centra in pieno, come un fulmine mi dà la scossa.
È una festa diffusa eppure ristretta, è un ritmo tenace immerso nel silenzio.
Ascolta bene, mi dico. Essere qui è una cosa che sto facendo per me.
La prima volta che sono stata alla Notte della Taranta avevo vent’anni. Era il 2001, e l’ospite era Manu Chao e in quel momento mi sembrava la cosa più carica di significato da fare. C’erano treni che partivano per Melpignano e tornavano nei paesi del Salento, per tutta la notte. Ci si poteva arrivare anche chiedendo passaggi alle mille e mille macchine che prendevano quella direzione.
In quella sera di fine agosto, andavano tutti lì. Per l’allegria, e la condivisione. Per la musica senza interruzioni, a un volume altissimo per soddisfare tutti, per la possibilità di ubriacarsi con poco, per la gioia di ballare con i piedi sporchi della terra rossa che circondava il palco. Per testimoniare la giovinezza e la spensieratezza, mie e di tutti ma anche dell’evento stesso.
La notte della Taranta è stato il modo in cui il Salento si è riconciliato con le sue tradizioni, perse nel tempo e improvvisamente riconquistate.
Perché è proprio questo che ha fatto, negli anni, il Concertone: si è accertato come una tradizione. La tradizione di una festa, a ricordo di una tradizione più profonda, quella della pizzica, che si esprime col corpo: il corpo della voce, il corpo del ballo.
Canta e balla per te, mi dico.
Quannu te llai la facce la mattina/l’acqua Ninella mia nu l’hai menare/nu l’hai menare/l’acqua Ninella mia nu l’hai menare/ca ddhu la mini tie nasce na rosa/na rosa e nu rusieddhu per ndurare mo pe ndurare…
La pizzica guarisce, scioglie dal veleno – è una catarsi – tramite un movimento semplice, ritmato e libero. Anche sofferto, ma poi liberatorio.
Quest’anno il ballo si è trasformato nelle mani di Sharon Eyal, ballerina e coreografa israeliana che ha curato le coreografie della pizzica portandole verso direzioni nuove e ha ripreso un percorso che aveva iniziato con la sfilata Cruise Dior 2021, tenutasi a Lecce a luglio, sotto la guida di Maria Grazia Chiuri. Anche Chiuri ha voluto continuare a dare il suo contributo artistico per la Notte della Taranta, proseguendo a tessere una tela spessa che la lega alla Puglia.
Sharon Eyal non aveva mai avuto a che fare con altre danze popolari, eppure il ritmo della pizzica è stato per lei trascinante, e ha scelto di affiancare ai danzatori del corpo di ballo della Taranta, il ragno, affidandolo alle movenze di un importante ballerino canadese, Darren Devaney.
Voglio ballare anche io, mi dico.
Muovo i piedi, canto le musiche che conosco a memoria e che quest’anno mi sembrano rivestite di un ritmo più profondo del solito, solenne. Poi sento dire che i ballerini si stanno organizzando per danzare in una piazza attigua e non resisto. Li seguo. Sono in cerchio, pronti a cominciare e sento qualcuno dire: «Ballate per voi!».
È quello che mi ripeto da tutta la sera, e in quel momento capisco il senso di quello a cui ho assistito e di cui sono anche stata protagonista, almeno per me stessa.
In una Notte della Taranta anomala, senza pubblico, senza sudore, senza migliaia di piedi danzanti, senza tamburelli a ogni cerchio, e canti collettivi, il modo per vivere la pizzica è viverla per se stessi. Niente al di fuori di se stessi.
Liberarsi, far uscire il veleno del ragno dal proprio corpo, le costruzioni, gli obblighi, le sottomissioni. Gioire, guarire, farsi trascinare dalla voglia di tutto.
E capisco che posso farlo usando le mie orecchie, i miei piedi, il mio entusiasmo, il mio sudore, il mio sorriso, i miei passi imparati da piccola, a scuola, nei primi anni in cui il fenomeno folkloristico della pizzica veniva riportato alla luce dalla memoria dei vecchi.
Sto ritrovando un’amicizia che avevo abbandonato in quegli anni di bambina: l’amicizia con la Puglia, il Salento, la mia terra.