Certe storie sono dentro di noi, scorrono tra le vene e i capillari in attesa che qualcuno trovi il coraggio di portarle alla luce. Quell’impresa Costanza Rizzacasa d’Orsogna l’ha compiuta nel dicembre del 2018, quando ha iniziato a scrivere il libro che sentiva di appartenerle fin da quando era una bambina: si chiama Non superare le dosi consigliate (Guanda, pagg. 256), un romanzo forte e bellissimo nel quale Costanza presta a Matilde, la protagonista, i suoi trascorsi con i disturbi alimentari e il bisogno di riprendere in mano la propria vita prima di vederla sbiadire per sempre, risucchiata dalle mura silenziose di una casa buia e rischiarata dalle luce di un frigorifero aperto, unica consolazione da un mondo che punta il dito e non perdona, che vede nelle persone obese un nemico da abbattere e non una risorsa su cui puntare. «Mi sono detta che lo dovevo fare», racconta Costanza poco più di un anno dopo, profondamente grata per tutto l’amore che i suoi lettori le dimostrano ogni giorno grazie all’attivismo in materia di «fat shaming» che ha inaugurato con un articolo, «Storia della mia grassezza», pubblicato su Sette nell’estate nel 2019 e diventato virale, e una rubrica, «AnyBody», nella quale, sempre su Sette, affronta con lucidità cosa voglia dire essere grassi oggigiorno.
«All’inizio avevo paura ma, appena mi sono messa al computer, ho scritto ininterrottamente per 10 giorni e sono venute fuori le prime 75 pagine del libro più o meno come le vedete adesso: ero in una specie di trance, come se la storia non la stessi scrivendo io, ma ce l’avessi nelle dita, dentro di me» insiste Costanza al telefono, con la voce pimpante di chi ha tante cose da fare e diverse ore di sonno da smaltire. Armata di una candela accesa, di una tisana bollente e di una bottiglietta d’acqua al potassio, Rizzacasa d’Orsogna è un fiume in piena: racconta la gioia nell’essere stata citata nell’intervento in Parlamento del deputato Filippo Sensi sul suo impegno contro il bullismo e il cyberbullismo, ma anche la sorpresa di aver trovato una platea così vasta di persone che in questi mesi l’ha accolta in un abbraccio di velluto: «Quando ti metti in gioco e ti apri, la gente risponde» racconta Costanza che, in Non superare le dosi consigliate, in gioco ci si mette davvero. Attraverso il personaggio di Matilde, ripercorre alcuni dei traumi che l’hanno accompagnata da bambina, come quando la madre bulimica le metteva vicino al piatto due pillole di lassativo per farle perdere peso privandola di tutti i piaceri della tavola che avrebbe voluto assaggiare, dagli sfilatini di pane alle briochine che le compagne di classe le passavano di nascosto, perché, si sa, la repressione non è mai l’arma giusta per combattere un problema. «È un libro di denuncia, è un libro sul dolore» racconta Costanza prima di ribadire più volte di essere sempre «un passo avanti» rispetto a Matilde: «Io sono un’attivista e Matilde non lo è. Io ho scritto un manifesto e Matilde non l’ha fatto. Io ho una rubrica e Matilde non ce l’ha» sottolinea la scrittrice dimostrando che l’io narrante non sempre coincide con l’autrice.
A un certo punto del libro scrive: «Non siamo angeli, non siamo migliori o peggiori. Cerchiamo solo di sopravvivere»: «Certe volte mi chiedo se le cose sarebbero andate diversamente se non avessi avuto una madre con i problemi che aveva: io e mio fratello siamo cresciuti con una mamma che, le poche volte che eravamo a tavola, a un certo punto scappava per andare a vomitare, con la porta del bagno aperta. Era la stessa scena tutti i giorni, con noi che vedevamo senza capire. Forse se lei non mi avesse dato i lassativi non li avrei presi di mia sponte da adulta: succede soprattutto a Matilde che, anche quando la madre è morta, pensa che smettere di prendere i lassativi voglia dire tradirla e lei vuole sempre farla contenta». La figura della mamma, filiforme e autoritaria, è una delle costanti più invasive di tutto il libro: chiedo a Costanza che cosa avrebbe pensato la sua, scomparsa nel 2002, di Non superare le dosi consigliate: «Quando stava per morire, mia mamma mi disse che ero la ragazza più in gamba del mondo, una cosa che mi aveva detto solo quando avevo tre anni. So che quell’ultima volta lo pensava: penso che oggi sarebbe orgogliosa che abbia scritto questo libro, perché c’è voluto molto coraggio per farlo. Penso anche che sarebbe orgogliosa di vedermi parlare in tv, dolce e grintosa insieme. Mi piacerebbe dirle che tutto questo dolore, per certi versi, è servito a qualcosa: alle fine quello che mi è successo è una cosa che capita in tante altre famiglie, solo che non se ne parla mai».
Proprio il non parlare, il non affrontare la questione, spiana la strada all’insicurezza e alla paura, al bisogno di essere accettati e di sentire intorno a sé l’amore e la stima. Quando l’editore ha chiesto a Costanza di scrivere un libro sulla grassezza è stato un po’ come se l’avesse autorizzata a parlare di queste cose, ad aprire uno scrigno che fino ad allora era rimasto sigillato per dare libero sfogo a tutto quello che ha subìto e che ha sentito il bisogno di esorcizzare. Un po’ come fece Lindy West, che nel 2016, rispondendo a un giornalista che si era scagliato contro le persone grasse, aveva scritto: «Questo è il mio corpo e non devo giustificarlo. Tutto questo fat shaming non mi ha fatta dimagrire, quindi vaffanculo». Una frase che Costanza riporta nel suo libro e che nella sua vita ha vissuto sulla sua pelle quando, dopo un commento gratuito e malvagio della parrucchiera sulla sua taglia oversize, ha avuto il coraggio di tornare indietro e di dirle che non si sarebbe mai più dovuta permettere di rivolgersi a lei in questi toni, come se le stesse mettendo un marchio sulla pelle: «Quello è stato “questo è il mio corpo” di Lindy West: merito di essere accettata adesso, non per i chili che potrò perdere in futuro. Anche perché, banalmente, sono una persona». Nessuna paura della bilancia, quindi. Anche perché Costanza una bilancia in casa non ce l’ha neanche: «Non sono minimamente interessata a pesarmi, anche se adesso sono dimagrita molto. Sto cominciando a guardarmi, l’altro giorno ero ospite ad Agorà e, dopo tanto tempo, mi sono vista bella: una cosa che a me non capita. Sto cominciando ad accettarmi per quella che sono: rimango una persona grassa, ma ho riscoperto il piacere il mettermi un tacco e anche qualche gioiello. E sa che c’è? Se anche prendessi un paio di chili in fondo chi se ne frega, non è certo un dramma. L’importante è non finire più in quel baratro in cui, per paura di incontrare dei perfetti sconosciuti che dicono le cose più terribili, scegli di rinchiuderti in casa e di avere relazioni con il mondo solo tramite mail e Twitter».
Un isolamento che Costanza ha vissuto sulla propria pelle e dal quale è uscita grazie al sostegno della famiglia e alla sua forza di volontà: «Erano molto preoccupati e, quando stavano per prendere in mano la situazione, mi sono detta: “no, aspetta, ho 44 anni, lo faccio da me”. Mi è scattata una specie di rivalsa verso la mia famiglia, come se dicessi “pensate che non sia in grado? Allora vi faccio vedere io”». Grazie all’attività fisica, alle sedute in palestra e all’attenzione per il cibo – «Non ho mai mangiato schifezze perché mi è sempre piaciuto mangiare bene» – Costanza, ma anche Matilde, lanciano un messaggio di speranza che, alla fine, è il cuore di Non superare le dosi consigliate: trovare il coraggio di accettarsi per quello che si è dando una lezione a tutti coloro che hanno gettato su di loro frustrazione e cattiveria. «La sorellanza e la fratellanza ci aiuteranno a combattere il fat shaming. Se vediamo l’altro come un altro noi, e non come diverso da noi, non lo stigmatizzeremo», chiosa Costanza insistendo anche sull’importanza dello sport non solo per la forma fisica, ma anche per l’equilibrio mentale – «Direi di trasmettere ai bambini non le ansie dei genitori, ma la serenità e la gioia di vivere, l’autostima. Dei modelli positivi, perché il primo modello è in famiglia» -. A essersene andata, poi, è anche un’altra paura che Costanza fa dire a Matilde nel libro: quella di arrivare grassa al suo funerale. «Nella mia generazione per andare in ospedale ti dovevi vestire bene, senza una scucitura. C’è stato un momento in cui ho temuto che quando fossi morta – perché mi dicevano che potevo morire – non sarei entrata nella bara. Alla fine il funerale non è mai per te, ma ci devi comunque arrivare in forma».