Capitolo 1
Il mio avvocato dice che se decidiamo di mentire
in tribunale, dobbiamo essere sicuri della verità.
E che la cosa migliore è annotare la sequenza esatta
degli eventi. Perciò eccola qui.
*
Fino a quel momento non mi era mai capitato di vedere sul giornale la fotografia di qualcuno che conoscevo, morto. Lo so. Ha dell’impossibile, in questo Paese. Prima o poi, con tutte le guerre e le operazioni-che-di-fatto-sono-
E invece no. Chissà come, sono riuscito a vivere metà della mia vita senza che mi capitasse. Forse per questo il brivido è stato così forte. Di solito si dice brivido perché non si trova una parola più precisa. Ma a me è davvero venuto freddo fra le scapole. Al coccige. Sono rimasto raggelato davanti alla piccola foto che si trovava non in prima pagina bensì in una delle ultime, quella vicina ai necrologi. Non ho avuto bisogno di guardare due volte. Era lui. Abbiamo trascorso insieme solo qualche ora a La Paz, ma quel viso mi era rimasto impresso. Il naso scolpito. Gli occhi che persino nel bianco e nero del giornale s’indovinavano chiari. La barba monacale.
La breve didascalia sotto la foto raccontava che Ronen Amir, turista israeliano di ventotto anni, era rimasto ucciso in un incidente sulla «strada della morte» in Bolivia, dove si trovava in luna di miele. La bicicletta che montava, diceva il trafiletto, aveva sbandato ed era sdrucciolata nel baratro. La moglie, Maya Amir, che era con lui al momento dell’evento, aveva chiamato i soccorsi, ma quando la squadra medica era arrivata non restava che constatare la morte. Il cadavere era stato riportato in Israele. Il funerale era previsto quel giorno.
Non avevo motivo di piangere, a fine lettura. Piango di rado, solitamente. E all’epoca nella mia vita c’erano dolori molto più personali della morte di quel ragazzo che a malapena conoscevo.
Chissà, forse qualsiasi pianto contiene in sé tutte le cose che fino a quel momento erano nascoste. Come succede con la dichiarazione dei redditi.
A ogni modo due giorni più tardi, durante la settimana di lutto stretto, sono andato a porgere le mie condoglianze. In quella fase non sapevo che la storia contenesse più di quanto riportato sul giornale. Per la verità, sono andato fin là senza neppure sapere perché ci andavo. I primi mesi dopo il divorzio mi capitava di frequente: una sorta di fiacchezza emotiva. La sensazione di essermi distaccato dal ritmo del mondo e di non riuscire a recuperarlo. E d’altro canto, un irrefrenabile bisogno di essere in movimento. Di scaricare. Di cercare guai.
Solo dopo essermi lasciato alle spalle gli ingorghi di Tel Aviv imboccando l’autostrada, mi sono reso conto che ero parecchio emozionato all’idea di rivedere Maya di La Paz: ricci castani. Sguardo provocatore e poi subito intimidito. Una piccola cicatrice Harry Potteriana fra le sopracciglia. Guance morbide, belle. Una cantilena leggermente fastidiosa. Leggermente finto ingenua. La fede al dito che infilava e sfilava. Infilava e sfilava.
Una parola di merda, emozionato: alla fine di ogni seminario che conduco qualcuno commenta sempre che è stato «emozionante» e a forza di dirlo, smette di essere emozionante. Scombussolato. Forse è questa la parola che vado cercando. Sì, più mi avvicinavo a destinazione, più ero scombussolato. Mi sentivo la pancia indurita come se stessi contraendo i muscoli. I pensieri volavano fuori dal finestrino. La musica proveniente dalla radio entrava da un orecchio e subito usciva dall’altro. Le scene della sua inaspettata visita notturna nella mia camera mi si ripresentavano a raffica.
Ho rallentato, lo ricordo bene. Viaggiavo sull’autostrada a settanta all’ora, come se tentassi di rimandare una conclusione.
*
Mentre ero intento a sfogliare gli album di fotografie, la stanza studio laterale in cui ci trovavamo si è svuotata quasi del tutto, siamo rimasti soltanto Maya, una sua amica e io. Lei continuava a mostrare zero interesse nei miei confronti. Indossava una felpa grigia con il cappuccio con sopra stampato Bart Simpson e le All Star rosse che ricordavo: se le era sfilate in camera mia a La Paz; parlava con la sua amica a bassa voce, con il chiaro intento di escludermi dalla conversazione.
Mi sono sentito un cretino. Avevo fatto tutto il viaggio fino alla Galilea per portare le mie condoglianze a una che nemmeno mi degnava di uno sguardo.
Allora mi sono alzato per andarmene.
Neanche al fatto che me ne andassi ha badato, ma quando sono arrivato alla porta d’ingresso mi sono sentito sfiorare la spalla, un tocco quasi impercettibile.
Mi sono voltato.
Grazie di essere venuto, mi ha porto la mano.
La sua stretta è stata più lunga del normale. Lunga abbastanza da permetterle di lasciarmi in mano un foglietto.
Ho annuito, chiudendo il pugno.
*
Solo in macchina ho osato leggere.
Prosegui fino alla fine della via poi svolta a sinistra nella piazza e continua dritto finché non vedi il monumento.
Aspettami al parcheggio. Ci vorrà un po’ ma troverò una scusa per raggiungerti.
*
Per prima cosa ho telefonato a Orna. Le ho chiesto di andare a prendere Liori dal doposcuola al mio posto. Lei si è scocciata: è proprio da te. Impuntarti per le visite, subito dopo sparire in Bolivia per due settimane e poi paccare quando la devi andare a prendere. Le ho risposto di non esagerare, era la prima volta che succedeva. Ha ribattuto che non la potevo avvisare così, all’ultimo. Liori non prende bene quel tipo di sorprese. Già così stava passando un periodo difficile. Ho spiegato che non avevo alternative, ero nel Nord. Non sarei comunque arrivato in tempo. Mi ha chiesto cosa ci facevo, su al Nord. Le ho raccontato una bugia. Ha commentato, ti dai da fare, da quando ti sei separato da me. Le ho detto, l’ho sempre fatto. E adesso ho anche gli alimenti da pagare. Ha concluso, insomma, va bene, la vado a prendere, anche se non te lo meriteresti.
Stronza, ho borbottato lontano dalla cornetta, e dentro alla cornetta ho detto, grazie Orna.
Maya è arrivata in bicicletta. L’ho vista spuntare dalla curva.
A vederla mi si è allargato il cuore.
Forse perché pedalava a tutta forza. Come se la inseguissero.
Forse perché il vento le scompigliava i capelli, lei infilava una ciocca dietro l’orecchio e alla folata successiva si liberavano di nuovo.
Si è fermata al monumento, ha fatto passare una gamba sorprendentemente lunga sopra il telaio, ha appoggiato la bici, senza legarla, al muro con i nomi dei caduti e mi si è avvicinata. Il suo petto si sollevava e scendeva velocemente; ansimava. Non capivo se per la pedalata, o per me. Quella ragazza mi risultava talmente indecifrabile, che non sapevo neppure se la potevo abbracciare. Cavoli, suo marito era rimasto ucciso settantadue ore prima, durante la loro luna di miele.
Si è alzata in punta di piedi, mi ha baciato – un bacio rapido, sulla guancia – e ha detto, avevo dimenticato quanto sei alto, poi ha aggiunto, scusa se sono stata così antipatica prima. Lì ho tutti gli occhi addosso. Ho la sensazione che abbiano dei sospetti. Non so. Ma forse è tutta una mia idea. Sua madre in realtà è a posto con me. I fratelli, invece… quelli là… non escluderei che… sono contenta che tu sia venuto.
È ammutolita e ha sorriso, un sorriso sconsolato.
Non capisci una parola di quello che sto dicendo, eh?
Ho annuito.
Ha lanciato occhiate sospettose a destra e a sinistra, come se temesse di essere pedinata, dopodiché ha detto: vieni. Da dietro il monumento partiva un sentierino nascosto che prima non avevo notato. Si è mossa in quella direzione. Dava per scontato che la seguissi.
Se c’è stato un momento in cui avrei potuto evitare, svicolare, ricredermi, salvarmi, il momento era quello.
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