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I portuali dicono no a questo sistema di affari e sfruttamento sulle banchine. E hanno ragione

I portuali dicono no a questo sistema di affari e sfruttamento sulle banchine. E hanno ragione

Dopo la corruzione la svendita. La vicenda criminale del porto e del sistema politico ed imprenditoriale genovese, del partito unico degli affari che imperversa ovunque, ripropongono un modello che più volte abbiamo sperimentato e vissuto nel paese, sempre con gli stessi risultati. Pessimi. Il sistema industriale e dei servizi delle Partecipazioni Statali subì scandali e […]

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Dopo la corruzione la svendita. La vicenda criminale del porto e del sistema politico ed imprenditoriale genovese, del partito unico degli affari che imperversa ovunque, ripropongono un modello che più volte abbiamo sperimentato e vissuto nel paese, sempre con gli stessi risultati. Pessimi. Il sistema industriale e dei servizi delle Partecipazioni Statali subì scandali e ruberie e, anche usando l’indignazione pubblica verso questa corruzione, fu privatizzato. Oggi il poco che resta di quel sistema, che spesso era la parte tecnologicamente più avanzata del paese, è in mano a multinazionali.

La sanità pubblica fu colpita da affari illeciti della classe politica, si affermò quindi la sua aziendalizzazione sul modello dell’impresa capitalista e si aprì la porta alla sanità privata. Il risultato è che la corruzione è rimasta, ma la sanità pubblica no.

La linea che ha adottato tutta la classe politica in questi decenni, di fronte al rapporto corrotto tra imprenditori e politici, non è mai stata quella di colpire le radici economiche e di potere della corruzione, bensì quella di colpire il sistema pubblico. Una razionale follia liberista, come se gli abitanti di un condominio, di fronte alle ruberie dell’amministratore, decidessero di buttar giù la casa invece che licenziare il ladro e definire nuove regole contro i furti.

I porti sono un bene comune, come le spiagge, le strade, l’acqua, come tutto ciò che secondo l’economia rappresenti un “monopolio naturale”, cioè un bene unico che deve essere usato da tutti e che, in quel luogo e secondo quella esigenza, non ha alternative. O mangi questa minestra o salti dalla finestra dice il proverbio. Per questo al capitalismo piacciono immensamente i beni comuni, perché una volta acquisiti danno luogo ad un profitto sicuro, senza vera concorrenza. La competizione tra i capitalisti c’è, ma per acquisire il monopolio, non dopo che se lo siano accaparrato. E per questa competizione, e per trasformare un bene comune in monopolio privato, si sprecano le mazzette ai politici.

I porti italiani erano pubblici fini al 1994. All’inizio di quell’anno il governo Ciampi, uno dei responsabili dello smantellamento liberista del sistema pubblico, varò la legge 84, che aprì la via alla privatizzazione dei porti. In realtà quella legge maturava da tempo, sotto la doppia pressione del sistema liberista europeo e del padronato italiano. Nei porti pubblici il lavoro dei portuali era rigorosamente regolamentato e soprattutto a Genova ogni imprenditore doveva fare i conti con il sistema di tariffe e diritti che ruotava attorno alla compagnia dei portuali, la CULMV.

Negli anni Ottanta, con la complicità e il consenso di Cgil Cisl Uil e dell’ala migliorista del Pci, era cominciato l’attacco al monopolio del lavoro della compagnia e dei sindacati dei portuali, accusati di impedire il libero mercato. La Compagnia, antica istituzione egualitaria che trattava alla pari coi padroni, doveva diventare un’ impresa capitalista che si confrontasse alla pari con le altre imprese… e ovviamente lo sfruttamento del lavoro doveva accompagnare il trionfo del mercato.

Alla fine, come su tutti gli altri fronti del lavoro, liberisti e padroni vinsero, anche grazie alla promessa rilanciata dai mass media che mercato e flessibilità avrebbero portato lavoro ben pagato e maggiore benessere.

Oggi, come da tempo denunciano i portuali del Calp, il collettivo autonomo dei lavoratori del porto che ha deciso di opporsi al sistema di affari e sfruttamento, nelle banchine c’è la giungla. Tra appalti, subappalti, contratti a giornata, si viene licenziati la sera e riassunti al mattino, interinali, precari di tutti tipi senza diritti e con paghe vergognose. Questo mentre il lavoro nei porti diventa sempre più duro e insicuro, poco tempo fa c’è stato un omicidio di lavoro, e prima una strage su una torre investita da una nave in manovra.

L’Autorità del Porto, che secondo la legge del 1994 avrebbe dovuto essere il controllo pubblico sui processi di privatizzazione, come abbiamo visto nell’inchiesta in corso è diventata il crocevia degli affari. Non c’è da stupirsi, quando i profitti delle imprese private diventano prioritari per il potere pubblico, anche quest’ultimo finisce per fare affari.

Ma non è finita. Nel 2023 il ministro Tajani ha annunciato che il governo dovrà realizzare la privatizzazione totale di porti. Questa ha un esempio cavia nel porto del Pireo, in Grecia, che quel paese è stato costretto a vendere alla multinazionale cinese Cosco, quando il governo greco doveva obbedire ai memorandum usurai della Troika di Ue, Bce e Fondo Monetario Internazionale.

Sulla stampa specializzata ci sono già “esperti” del settore che spiegano che la Grecia ha fatto un colossale affare con il suo porto e che dovremmo farlo anche noi. Naturalmente la fedeltà euroatlantica impedirà di vendere i nostri porti alla Cina, ma ci sono la danese Maesnk, la svizzera Msc e altre multinazionali nord atlantiche già pronte ad intervenire. E quando i porti saranno tutti privati non ci sarà più bisogno della corruzione dei politici per ungere gli affari, i profitti arriveranno da soli.

Vedremo cosa faranno i “sovranisti” della Lega, che con Salvini e Rixi stanno preparando la riforma dei porti. Finora il film è quello di sempre: distruzione del pubblico, conseguente commistione di affari tra classe politica indecente e imprenditoria stracciona e infine tutto il potere alle multinazionali.

La parte più attiva e consapevole dei lavoratori portuali da anni si batte contro questa deriva, e contro le complicità politiche e sindacali che la consentono. I portuali del Calp sono quelli che hanno scioperato contro le navi cariche di armi e contro lo sfruttamento selvaggio nel porto e per questo hanno subìto ostracismo, minacce, persino repressione poliziesca. E il sistema di potere consociativo del porto non vuole testimoni scomodi nè tantomeno contestazioni. La lista, corredata da più di duecento firme certificate di lavoratori, presentata dalla Usb per le elezioni delle rappresentanze sindacali nella più importante impresa del porto, con un cavillo assurdo è stata rigettata, di comune accordo, da padronato e Cgil Cisl Uil.

Il sistema si difende, ma le inchieste della magistratura dimostrano che i portuali hanno avuto e hanno ragione. O si ricostruisce il sistema pubblico dei porti e con esso la dignità del lavoro, o gli sporchi affari, magari sotto altri nomi e bandiere, continueranno.

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