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In ricordo di una grande d’Israele: Yael Dayan

E’ morta una grande d’Israele. Una combattente per la pace. Una paladina dei diritti delle donne e delle minoranze. Un’amica per chi scrive. È scomparsa all’età di 85 anni Yael Dayan.

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E’ morta una grande d’Israele. Una combattente per la pace. Una paladina dei diritti delle donne e delle minoranze. Un’amica per chi scrive. È scomparsa all’età di 85 anni Yael Dayan.

Per ricordarla, una intervista che mi concesse tre anni fa. Rileggerla alla luce dell’oggi, ha una straordinaria valenza “profetica”. Un modo per ricordarla. Che la terra ti sia live, cara Yael.

“Ciò che più mi colpisce e mi sconvolge è la ripetitività del Male. Ho ormai perso il conto delle guerre combattute a Gaza, dei missili sparati sulle città israeliane, dei moti palestinesi nei raid della nostra aviazione. Il dolore si unisce alla rabbia. Sì, la rabbia. Perché sia Netanyahu che i capi di Hamas sanno bene che anche questa volta si dovrà arrivare all’ennesima tregua che, la storia insegna, sarà seguita, prima o poi, da un’altra escalation di violenza. Milioni di israeliani e di palestinesi sono ostaggio di leader che di una cosa hanno davvero paura: una pace giusta, fondata su una parola che non esiste nel loro vocabolario: la parola compromesso. Hamas perde consensi a Gaza, soprattutto tra i giovani. E allora gioca l’unica carta spendibile nel suo mazzo usurato: quella della resistenza al nemico sionista. Netanyahu e la sua corte di falchi non esisterebbero più al potere se non avessero un Nemico, esterno o interno, contro cui indirizzare la paura e l’ostilità della gente. Si fanno la guerra, ma è con la guerra che si legittimano a vicenda. È un cinismo che mi fa rabbrividire”.

È la coscienza critica d’Israele. Porta uno dei cognomi che hanno fatto la storia dello Stato ebraico. Più volte parlamentare laburista, scrittrice di successo, paladina dei diritti delle donne, Yael Dayan, figlia dell’eroe della Guerra dei Sei Giorni, il generale Moshe Dayan.  Il suo è un possente j’accuse che investe anche la comunità internazionale: “Ora lanciano appelli alla moderazione – annota con amarezza – chiedono la fine dell’escalation, ma cosa hanno fatto in tutti questi anni i leader mondiali per sostenere coloro che nei due campi peroravano il dialogo, chiedevano la riapertura di un tavolo negoziale, il ripristino della legalità internazionale in questo martoriato angolo del pianeta? La risposta è desolante: niente. Assolutamente niente. E la situazione è nuovamente precipitata”. 

A Gaza è guerra. Si contano i morti Da una parte e dall’altra. Un bilancio che cresce di ora in ora. E la situazione rischia di precipitare.   Piani per una possibile invasione di terra della Striscia di Gaza sono stati presentati oggi allo Stato Maggiore delle forze armate israeliane (Idf). A prepararli sono la Divisione Gaza e il Comando Sud dell’Idf. I piani, riferisce il Times of Israel, verranno poi presentati al governo, al quale spetta la decisione finale. 

Una invasione di terra sarebbe una sciagura. Stiamo parlando di un lembo di terra dove vivono ammassati oltre 2milioni di palestinesi. I comandi militari e i nostri servizi d’intelligence sanno bene che Israele non può tornare a rioccupare la Striscia di Gaza. Né annientare una volta per tutte Hamas. E di questo ne è consapevole la stessa Hamas…

E allora?

Allora la storia si ripete. Hamas ha perso credito in una popolazione stremata, secondo i sondaggi di fonte palestinese, se si votasse oggi sia Hamas che Fatah perderebbero consensi. E allora Hamas cerca di fare quello che meglio le riesce: giocare la carta della resistenza armata al nemico sionista. E in questo “gioco” trova sponda in Netanyahu…

Perché?

Perché Netanyahu rischia di uscire di scena dopo essere stato il dominus per oltre un decennio. E allora anche lui gioca la carta della minaccia mortale che mina la sicurezza d’Israele. E lui è il “re della sicurezza”. Purtroppo non riesco a vedere un barlume di luce in fondo al tunnel. Non esiste, non può esistere una pace vera, durevole, che possa conciliarsi con la massiccia colonizzazione dei Territori palestinesi occupati. Non è conciliabile per il semplice, inconfutabile, dato di realtà che la politica di annessione di fatto di terre palestinesi, la trasformazione, anche sul piano dello status, di colonie in città israeliane, minano dalle fondamenta un accordo fondato sul principio di “due popoli, due Stati”. Nel vocabolario politico della destra radicale israeliana come di Hamas e della Jihad islamica palestinesi, la parola compromesso è bandita. E lo è perché accettarla significherebbe riconoscere che, come ebbe a scrivere Amos Oz, l’essenza di questo conflitto, di questa tragedia, è che il Male non è tutto da una parte e il Bene dall’altro, ma che l’essenza di questa tragedia è che a confrontarsi sono due diritti egualmente fondati: quello dei palestinesi a uno Stato indipendente, e il diritto alla sicurezza per Israele. Non sarà con la forza che questi diritti verranno realizzati.

La storia si ripete. Stavolta, però, c’è qualcosa di più: il “pogrom” di Lod, come il presidente israeliano Reuven Rivlin ha definito gli attacchi a sinagoghe da parte di arabi israeliani nella città di Lod. E scontri tra israeliani ebrei e arabi israeliani si segnalano anche in diverse altre città. 

Gli episodi a cui lei fa riferimenti rischiano di essere l’avvisaglia di una guerra nella guerra, per certi aspetti ancora più grave, per le conseguenze che potrebbe determinare, di quella in atto contro Hamas. Mi riferisco ad una guerra civile tra ebrei israeliani e israeliani appartenenti alla minoranza araba. E qui davvero la responsabilità della destra “fondamentalista” è totale. Perché significa usare l’ebraismo come arma politica e identitaria contro una comunità, quella araba, che rappresenta oltre il 20% della popolazione dello Stato d’Israele. Significa radicalizzare le posizioni in quella comunità, nel momento in cui si aprono spiragli importanti perché forze come la Joint List e la Lista Araba Unita possano entrare in una maggioranza di governo. Da settimane Gerusalemme è teatro di scontri tra residenti palestinesi e attivisti di estrema destra che rivendicano il possesso assoluto della città e una espulsione di massa dei palestinesi che risiedono nei quartieri di Gerusalemme Est, come quello di Sheikh Jarrah. Si è scatenata una caccia all’arabo che le forze di sicurezza hanno faticato a contenere, anche perché quegli ultras erano apertamente appoggiati da partiti razzisti e anti arabi come lo è dichiaratamente il Sionismo Religioso, che Netanyahu ha prima “sdoganato” ed oggi incluso nella coalizione di destra che dovrebbe sostenerlo. E subito Hamas ha cercato di cavalcare la protesta dei palestinesi di Gerusalemme Est a colpi di razzi sparati da Gaza. Di nuovo, gli opposti estremismi trovano un punto di contatto. Sono stati gli accordi e le intese raggiunti con Hamas attraverso i mediatori che hanno prodotto periodi di pace e tranquillità. I cittadini d’Israele non hanno bisogno di un altro test costoso e insensato o di un’altra dimostrazione di letale flessione dei muscoli. La sicurezza degli israeliani che vivono nelle vicinanze di Gaza avrebbe dovuto essere in cima alle considerazioni di chi ha responsabilità di governo e della sicurezza quando hanno visto come stavano precipitando gli eventi a Gerusalemme. Invece si è scelto di lasciare campo libero ai “kahanisti”. E da Gerusalemme il fuoco si è propagato fino a Gaza. 

Il ministro della Difesa, Benny Gantz, in sintonia con Netanyahu, ha messo in risalto le “eliminazioni mirate” che hanno riguardato esponenti di primo piano nella catena di comando militare di Hamas e della Jihad islamica

Gantz non è originale in questa sua affermazione. Prima di lui, ho perso il conto di primi ministri, ministri della Difesa che avevano decantato la “decapitazione” della leadership di Hamas, a cominciare dal suo fondatore (lo sceicco Yassin, ndr). Ma l’annientamento totale è impossibile. E questo i vertici militari lo sanno molto bene. 

Quali sono le responsabilità della comunità internazionale in questo precipitare degli eventi?

Responsabilità gravissime. E reiterate nel tempo. Si sono lasciati incancrenire i problemi senza risolverne neanche uno. Ci si è illusi che accordandosi con alcuni Paesi arabi, gli “Accordi di Abramo”, si potesse accantonare o addirittura cancellare la “questione palestinese”. E in questo il ruolo di Donald Trump è stato esiziale…

Con Biden le cose possono cambiare?

Peggio è impossibile. Ho avuto modo di conoscere Biden quando da vice presidente di Obama venne in missione in Israele. E’ una persona capace, competente, che conosce ciò di cui parla. Ma non ha la bacchetta magica e poi il suo impegno sarà soprattutto concentrato sul fronte interno. Una cosa, però, può fare. E’ essere amico d’Israele e non, come è stato Trump, del “sovranista” Netanyahu. Le due cose non coincidono. Oggi è necessario fermare le armi e negoziare una tregua. Ma essa deve servire per riaprire un negoziato su tutti i dossier aperti. E’ questa la discontinuità con il passato che spero che il presidente Biden e il segretario di Stato Blinken possano determinare. E l’Europa potrebbe dare un grande contributo in una partnership di pace. 

Di fronte agli oltre mille missili sparati su Ashkelon, Ashdod, Tel Aviv, Gerusalemme, Netanyahu ha rivendicato il diritto di difesa da parte di uno Stato che vede minacciata la sua sicurezza e quella dei suoi cittadini.

So cosa significhi combattere per la sicurezza del mio Paese, e sono stata onorata di averlo fatto. Ma la sicurezza non si conquista e si mantiene con la forza del nostro esercito. Occorre il coraggio della pace. E’ la grande lezione di Yitzhak Rabin.  

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