TRIESTE Fortuna Poggi risponde al telefono nel tardo pomeriggio. «È una lotta senza fine», dice, ma non ha molte altre risposte per la piscina terapeutica. «Ti richiamo dopo, però: tra poco devo dare la cena a Fulvio».
Fulvio, suo figlio, ha 57 anni ed è affetto da tetraplegia spastica distonica dalla nascita. È lucido, vigile, ma necessita ci continue cure per muoversi, andare in bagno, mangiare la cena. «Fisicamente non può fare tante cose, ma la testa è troppo presente», dice Fortuna, che a 77 anni è la caregiver di suo figlio.
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«Nell’acqua Fulvio, per quanto soffra, è un’altra persona: migliorava nel movimento e nello spirito», racconta. Fortuna ha frequentato la piscina terapeutica per anni: fino all’altro ieri era presidente dell’Acquamarina onlus, ente che si occupava di promuovere attività riabilitative, sportive e di cura in acqua. Con lei Fulvio, sempre, con le sue distonie, «peggiorate da quando non ha più la sua terapia in piscina: spostarlo, vestirlo, alla mia età è una fatica impossibile». La «magia» dell’acqua calda di mare era proprio di rilassare i muscoli e rendere più semplice il movimento.
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All’Acquamarina Fulvio si muoveva come poteva, «nuotava tantissimo e faceva terapia uno a uno, tre volte a settimana». E questo, dice, «non può essere sostituito». A Trieste non ci sono altre piscine come quella, con ampie vasche riempite di acqua salata calda, benefica. «All’inizio – dice – hanno provato ad aiutarci con piccoli fondi per andare a curarci altrove: ma non è quello di cui abbiamo bisogno».
Nelle vasche dell’Acquamarina si incontrava anche Caterina, ragazzina affetta da osteogenesi. «Quando è nata mia figlia, al Burlo mi dissero che sarebbe rimasta a letto tutta la vita», ricorda la madre, Marina Mengaziol. «Abbiamo fatto mille ricerche, letto studi e rapporti: c’erano approcci di talassoterapia che sembravano darci speranze».
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Nel 1993, Marina avvia così una raccolta di migliaia di firme per chiedere una struttura inclusiva e accessibile per tutti, in cui poter nuotare dolcemente, fare riabilitazione dopo un infortunio o sottoporsi a terapie individuali. L’acqua salata, precisa, non fa miracoli, ma lenisce i dolori e aiuta il recupero. Nel caso di Caterina, le ha permesso di frequentare la scuola. «Abbiamo costruito Acquamarina così – dice Marina – da una volontà: mi chiedo perché sia tanto difficile ricostruirla ancora».
Nei cinque anni trascorsi dal crollo del tetto della piscina, il 29 luglio 2019, utenti ed ex utenti hanno cercato altre soluzioni. Alcuni frequentano le terme a Grado, dai prezzi meno popolari. Altri arrivano fino ad Ancarano, in Slovenia, dove però le vasche sono riservate ai clienti dell’hotel. «Molti altri hanno lasciato perdere», dice Barbara Micoli, pensionata, utente dell’Acquamarina per anni. «Ero ancora impiegata, e – racconta – soffrivo di un mal di schiena cronico». Tre o quattro mattine a settimana metteva il costume in borsa e dopo lavoro si immergeva nella grande vasca centrale: «Quell’oreta di aerobica mi rimetteva al mondo. Ma adesso – racconta – dovrei andare fino a Portorose: venti chilometri ad andare e tornare, una spesa importante. Mi tocca rinunciare».
Altri ancora frequentano la Bianchi, dove però l’acqua è fredda. «Prova a entrare in piscina e rimanere fermo per un’ora: andresti in ipotermia», dice Manuele Fakin: «Il discorso – precisa – è che è da cinque anni che non ci curiamo». Manuele frequentava la piscina tutte le mattine e tutti i pomeriggi. Ha 53 anni, un invalidità civile e problemi di grave obesità. «Muoversi – dice – è difficile per me: solo nell’acqua di mare calda riuscivo a migliorare. Avere una vita, non dico normale, ma quasi».
Nei cinque anni senza Acquamarina, Manuele ha sospeso tutte le terapie in acqua, non disponendo di altre soluzioni vicine: difficile anche percorrere pochi chilometri fino a Monfalcone, dove «le terme sono chiuse per lavori dopo legionella». «Non ne possiamo più di raccogliere firme, chiedere e domandare: il discorso è che non ci sono altre soluzioni e noi non ci curiamo più». E poi, la piscina terapeutica «non era solo nuoto libero e lento, ma – dice – spazio di socialità per noi disabili che la società tende a isolare: perdere quello spazio di quotidianità è stato un trauma, irrisolto. E tutto questo non ce lo ridaranno più»
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