non ha dubbi: la recente visita del cancelliere Olaf Scholz in Cina è stata un concerto con molte, troppe stecche. Per un verso, le cronache ci descrivono una sorta di falange politica di colossi industriali tedeschi (Basf, Siemens, Bmw e altri) i cui fatturati dipendono in misura significativa dagli umori economici del Dragone. È una lobby potente, determinata a restare nel Paese e che non vuole sentir parlare né di decoupling, cioè di uscita dalla Cina, né di derisking, cioè di riduzione dell’esposizione verso di essa. Per il verso opposto, osserviamo l’abituale esercizio da trapezista di Scholz, che cerca un equilibrio, una mediazione tra le insistite richieste dell’industria tedesca e gli ordini di scuderia che arrivano dagli Stati Uniti. È vero che il cancelliere ha usato un registro diverso rispetto ai manager che viaggiavano al suo seguito, ma colpisce che pensi di avere i margini per cercare questo tipo di manovra. Una «terza via», infatti, non è possibile.
Gli industriali tedeschi che premono sulla politica per restare in Cina propongono una versione aggiornata e rivista del vecchio Wandel durch Handel, ovvero la fiaba edificante secondo cui gli scambi con Paesi autoritari possono riuscire nel miracolo di addolcire questi ultimi. Archiviata l’illusione di poter fare del regime di Pechino una democrazia compiuta, Deutschland AG (il nome con cui ci si riferisce al club più esclusivo dell’economia tedesca) prova ora a insinuare l’idea che l’abbraccio economico con la Cina possa evitare o quantomeno differire l’arrivo di una nuova «cortina di ferro», che vedrebbe il gigante asiatico sempre più chiuso in sé e in compagnia di Vladimir Putin e degli ayatollah. Ma è un’illusione effimera, dal momento che la curvatura bellicistica cinese è corroborata dalla spesa militare in crescita drastica, dai toni sempre più roventi rivolti a Taiwan e dalle continue scaramucce con i propri vicini (chiedere ai marinai filippini e giapponesi per referenze).
Xi Jinping ha tutto l’interesse a mostrarsi «morbido» con i suoi interlocutori europei di questi giorni - oggi Scholz, domani Macron - ma ha le idee molto chiare. Il cancelliere, al contrario, sembra avere un’idea sbagliata del posto della Germania nel mondo attuale. Il suo errore principale non è quello di cercare di guadagnare tempo per il proprio sistema industriale, che fa fatica a riprendersi dalla fine dell’illusione dell’idillio eurasiatico (leggasi: gas a prezzo vile dalla Russia, export à gogo verso la Cina), che vuole rimanere abbarbicato a Pechino a rischio di farsi scaricare addosso la sua sovracapacità produttiva con effetti devastanti, e non soltanto per la Germania. Evocare la Zeitenwende, il cambiamento epocale; premere il pedale del riarmo; acquistare tanti F-35 americani e aprire nuove fabbriche oltreoceano per tenere buono Zio Sam. Tutto questo aiuta, ma non basta. Il vero punto, infatti, è che Scholz sembra non accettare che siamo ormai entrati in un «paradigma G2», cioè in una nemmeno troppo virtuale spartizione pre-bellica del mondo tra Cina e Stati Uniti in aree di influenze, in cui l’Europa è «accatastata» in quota Usa. Per inciso, è proprio questo modello, a cui corrisponde una precisa ripartizione di compiti, che aiuta a comprendere il rinnovato slancio nei rapporti tra Germania e Regno Unito, a cui ha contribuito lo stesso re Carlo d’Inghilterra con uno storico discorso in tedesco al Bundestag di Berlino.
In questo contesto, Washington vuole che l’Europa serri la morsa sulla Cina, così da indurre a sua volta Pechino a mettere le briglie a Russia e Iran. Il ricorso all’economic warfare, il conflitto guerreggiato con gli strumenti della guerra economica, è da tempo argomento ricorrente su entrambe le sponde dell’Atlantico. A Pechino si registrano diversi dinieghi di pagamenti da parte di banche cinesi a controparti russe, dovute al timore di far scattare il micidiale meccanismo statunitense di sanzioni secondarie.
