Il giornalista sportivo Gianni Galleri racconta paesi e genti attraversati da una passione che unisce
I Balcani, si sa, sono tanti. Romantici e zigani, ordinati e silenziosi, iracondi e dolci, i popoli bagnati dalle circonvoluzioni del Danubio sono un puzzle, meglio un rompicapo, di difficile soluzione. Una chiave originale per penetrare tra le montagne dinariche e le pianure del Tibisco ce la offre Gianni Galleri, che dopo dieci anni spesi a girovagare tra stadi e tifosi di Belgrado e Pristina, Bucarest e Tirana, squaderna un ritratto singolare dei Balcani visti sotto la prospettiva del calcio.
Quel fenomeno sociale totale, come è stato definito, e i suoi adepti, ultras e appassionati, sono la lente con la quale Galleri, un toscano quarantenne che ha realizzato podcast, documentari e quattro libri sul calcio dell’Est, è andato a caccia del volto più autentico di un mondo che, visto dalle nostre latitudini, appare ancora indecifrabile.
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“Balkan football club” (Bottega Errante Edizioni, pagg. 367, euro 19), sottotitolo “viaggio rocambolesco alla ricerca di utopie e rigori sbagliati”, è una sorta di guida di viaggio apparentemente rivolta agli appassionati di calcio, ma che può essere letta da chiunque sia interessato a conoscere gli aspetti più veri, popolari e profondi dei Balcani. Qui non troverete il falso luccichio per turisti che anima le guide ufficiali; le decine di persone che Galleri incontra (deve avere una agendina che rivaleggia con quella mitica di Gianni Minà) e con le quali condivide birre, grappe (le varie tipologie di rakja distillate dalla Serbia alla Macedonia) e cevapcici sono animate dalla sua stessa passione per il calcio.
Perché Galleri è uno capace di partire così su due piedi da Roma per andare fino ad Aidussina a vedere una partita del campionato sloveno, o di girare per chilometri nei boschi attorno a Novi Sad per andare a dare una carezza sulla tomba dell’allenatore Vujadin Boskov. Il calcio, scrive Galleri, è un passepartout capace di aprire porte che sarebbero rimaste chiuse. «Ci si fida di sconosciuti perché si condividono i sentimenti che si provano. Si beve con gente che non si vedrà mai più perché si sa che sono dei nostri».
Nel suo vagabondare incontra pezzi di Jugonostalgia, come la statua di Tito alta dieci metri, la più grande statua dedicata al Maresciallo, nella piazza principale di Velenje, città dormitorio creata per ospitare i minatori delle vicine cave di lignite a nord di Celje o l’oste di Pristina che tira fuori da sotto il bancone il ritratto di Tito e lo bacia come una reliquia. Il libro è attraversato dal ricordo della guerra in Jugoslavia, che nell’immaginario popolare è iniziata sul campo di calcio della Dinamo Zagabria. Su Youtube si possono vedere le immagini di Zvone Boban, il calciatore croato che giocò a lungo nel Milan, che rompe la mandibola a un poliziotto durante gli scontri tra i due gruppi di ultrà durante la partita tra la sua Dinamo e i serbi della Stella Rossa nel maggio 1990. Fuori dallo stadio Maksimir c’è un monumento che ricorda come quel giorno prese avvio la “guerra patriottica”, quando invece, riflette Galleri, fu “solo” uno scontro fra hooligans.
Ma gli stadi, tempio pagano del calcio riflettono e amplificano quello che succede intorno. Anche per questo, aveva scritto l’uruguaiano Eduardo Galeano, non c’è niente di meno vuoto di uno stadio vuoto. Negli stadi Galleri va a cercare il profumo dell’erba dei prati, lo spirito di quei luoghi che risuonano ancora di migliaia di partite. Stadi bellissimi e abbandonati come il Bežigrad di Lubiana, disegnato negli anni Trenta dall’architetto Jože Plečnik con un lungo colonnato da tempio greco che non c’entrava niente con la sua funzione sportiva. D’altronde nella Lubiana di quegli anni c’era più gente che andava all’opera lirica che alle partite di pallone e seguiva solo gli sport invernali: «gli sloveni, avrebbe detto sprezzante Boban prima di un Olimpia Lubiana-Milan, sanno solo sciare».