Il leader leghista: possiamo arrivarci in cinque anni. La cautela di Meloni. Mentre Berlusconi punta su una «aliquota al 23% per famiglie e imprese»
Si fa presto a dire flat tax, a scriverlo genericamente nel programma di centrodestra e a ipotizzare aliquote più o meno basse. Per Matteo Salvini e Silvio Berlusconi è un classico cavallo di battaglia da campagna elettorale, da citare in ogni intervista e in tutti i comizi. Il primo la vuole al 15% per partite Iva e lavoratori dipendenti, il secondo al 23% per tutti: in comune hanno il punto interrogativo sul come ripianare il buco nelle casse pubbliche causato dal minor gettito fiscale. Non a caso Giorgia Meloni su questo tema è molto più cauta, perché non vorrebbe ritrovarsi tra un paio di mesi a palazzo Chigi costretta alle acrobazie per mantenere la promessa e finanziare la “tassa piatta”. La versione suggerita da Fratelli d’Italia è molto più leggera: una flat tax incrementale (aliquota da definire) solo sull’aumento dei redditi dichiarati da un anno all’altro, quindi quasi a costo zero per lo Stato.
Una prudenza che non appartiene, invece, al leader della Lega: «In questo momento ci sono due milioni di partite Iva che pagano una flat tax al 15%, a me piacerebbe estendere questa tassazione anche ai lavoratori dipendenti – spiega –. Nell’arco di cinque anni si può fare». Forse applicando il regime forfettario entro la stessa fascia di reddito, cioè 65mila euro all’anno, come deciso nel 2018 all’epoca del governo gialloverde. La misura è restata in vigore con il secondo governo Conte, che però si è ben guardato dall’ampliarla, preferendo agire sul cuneo fiscale. Ed è stata ignorata da Mario Draghi, che fin dall’inizio ha insistito sull’importanza della progressività del sistema fiscale e ha sorvolato sulla flat tax anche nell’ultimo discorso in Parlamento prima delle dimissioni, facendo indispettire i leghisti. Che ora, puntualmente, tornano alla carica. Anche se in Italia ci sono circa 18 milioni di lavoratori dipendenti e non è difficile immaginare il forte impatto sui conti pubblici della proposta di Salvini.
Cinque anni fa il leader della Lega si era affidato ai calcoli dell’allora responsabile economico del partito Armando Siri, che aveva stimato in almeno 50 miliardi di euro il peso dell’operazione, metà dei quali sarebbero stati compensati, a suo avviso, dall’emersione del sommerso. Che è poi la principale scommessa di chi esalta la flat tax: far pagare meno per far pagare (quasi) tutti, aumentando il gettito fiscale in virtù del minor carico che ogni contribuente dovrà sopportare. Non fornisce cifre Carlo Cottarelli, convinto però che «una simile riforma costerebbe moltissimo, diverse decine di miliardi, dato che un'aliquota del 15% è molto bassa - spiega l’economista - Poi tutto dipende da come la riforma verrebbe messa in atto». D’altra parte, anche la proposta di Berlusconi risulterebbe piuttosto faticosa da “digerire” a livello di bilancio: secondo alcune stime, l’aliquota fissa per tutti al 23% costerebbe tra i 20 e i 30 miliardi di euro ogni anno. Dal Partito democratico attaccano su tutta la linea questo specifico punto del programma di centrodestra, perché «chi guadagna poco continuerà a pagare le stesse tasse e chi ha redditi più alti ne pagherà molte di meno - avverte la capogruppo al Senato Simona Malpezzi -. Nel frattempo, ci sarebbero meno risorse per i servizi pubblici essenziali, dalla sanità alla scuola, e nuovo debito a gravare sulle future generazioni». In questo senso, va ricordato che una flat tax così strutturata esiste in una ventina di Paesi nel mondo: alcuni noti paradisi fiscali, ma anche un ampio blocco dell’Est, a cominciare da Russia e Ungheria, più altri un tempo appartenenti all’Unione sovietica. Tutte realtà dove le entrate hanno un’incidenza sul Pil in media inferiore di 10 punti rispetto ai Paesi dell’Europa occidentale, come l’Italia. E dove la spesa pubblica e sociale è molto più bassa.