Dimenticate per qualche minuto la Next Gen, i ventenni dalle grandissime speranze. Dimenticate la giovane Italia della racchetta, talentuosa e con servizi che viaggiano oltre i duecento chilometri orari. Agli Internazionali di tennis di Roma c'è posto anche per gli over 30. E così quando le campane suonano le diciannove, finalmente il sole smette di picchiare e l'ombra si allunga sulla Grand Stand Arena, finalmente possono entrare in campo gli ultimi italiani rimasti ancora in gara, Fabio Fognini e Simone Bolelli, arrivati ai quarti di finale del torneo di doppio. 

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Mentre il pubblico della sessione serale tira fuori giacche di pelle e si sistema ai propri posti dopo aver cantato Propaganda di Colapesce, Dimartino e Fabri Fibra, ecco il rullo di tamburi che annuncia l'ingresso in campo dei veterani azzurri. Si sentono gli applausi dal viale che porta al Campo Centrale. Fuori Sonego e Sinner, out per infortunio Berrettini e Musetti, sono ancora questi ragazzi nati negli anni Ottanta i testimonial del Made in Italy davanti a un pubblico che li conosce da almeno un decennio e che quindi li chiama per nome, anzi per soprannome: «Daje Fogna», «vai Simo», «grandi ragazzi». 

Guardandoli giocare da vicino, osservando i gesti delle mani dietro la schiena, il linguaggio in codice comprensibile soltanto a loro due, il modo in cui si muovono l'uno seguendo i movimenti dell'altro, si capisce che in due contro due si gioca tutto un altro sport. In due ci si divide meglio il campo, ma si pensa il doppio e si sbaglia il doppio. «Fatevi sentire», dice Fognini al suo angolo dopo un game vinto a fatica nel primo set, come se a trentaquattro anni, dopo diciotto anni di professionismo ci fosse ancora bisogno di qualcuno che gli dica «bravo, continua così». E sì, la verità è che ne hanno ancora bisogno.

Il doppio è un gioco isterico, velocissimo, di equilibri precari e fiducia a tempo determinato: basta un dritto fuori di un centimetro per far crollare l’impalcatura e far precipitare il punteggio, l’aggravante è che, nella discesa libera, si rischia di trascinare anche il proprio compagno. 

Simone Bolelli e Fabio Fognini hanno 36 e 34 anni, sono cresciuti insieme tennisticamente. Prima della generazione dei fenomeni e del dream team azzurro sono stati loro a tirare avanti il carretto del movimento italiano. Nel 2015 la coppia ha conquistato gli Australian Open di doppio, più di mezzo secolo dopo il trionfo di Pietrangeli Sirola al Roland Garros del 1959. Fognini poi, il più piccolo dei due, è stato il primo italiano a conquistare un titolo Atp 1000, un altro soffitto di cristallo fatto crollare a futura memoria. Di fronte a un presente che offre l’imbarazzo della scelta, si tende a sottovalutare il passato. I veterani sono stati accusati di non avere voglia di soffrire, eppure diciotto anni dopo il loro ingresso nel circuito sono ancora in campo, alle sette di sera mentre agli Internazionali d’Italia è calato il buio e comincia pure a fare freddo. Sono nonostante gli infortuni e le circa mille partite a testa giocate. Gli spalti non sono più pieni come una volta o come nel singolare, loro sembrano non farci caso, l’importante è esserci ancora.  

Fognini e Bolelli, indietro di un set e di un break, aiutati dal loro pubblico e dal popopopo diventato sottofondo in tutte le pause da fine secondo set in poi, sono riusciti a rimettere in piedi una partita che sembrava diventata a senso unico, contro la coppia tedesca formata da Krawietz e Metz, teste di serie numero otto del seeding. È finita dopo due ore e un minuto, 6-7 6-4 e 11 a 9 al super tie break. Un punteggio che porta i due italiani in semifinale agli Internazionali d’Italia. Al momento, soltanto sette coppie al mondo hanno ottenuto risultati migliori rispetto a loro in questa stagione. Hanno qualche ruga in più rispetto agli inizi, ma non chiamateli vecchietti.