Strade e piazze vestite con i colori delle squadre, ma l’atmosfera è diversa anche rispetto a un anno fa, dove c’era molta aspettativa
IVREA. «Almeno le bandiere!». È l’appello, quasi una supplica che molti rappresentanti del popolo dei berretti frigi hanno lanciato nelle ultime settimane, tanto dai social che nelle chiacchierate fra amici.
E gli aranceri hanno risposto: alla vigilia del secondo Carnevale che non c’è si sono ritrovati, hanno affittato le autoscale e aperto i cassoni nei quali ripongono i loro vessilli. Nello scorso weekend le prime squadre si sono mosse: dai balconi del Borghetto oggi fanno bella mostra di sé le bandiere dei Tuchini, in Lungo Dora i vessilli dei Diavoli sono andati a far compagnia agli scudi che sono ormai un’installazione permanente (al pari del Castello delle Pantere a Porta Vercelli). I palazzi di mezza piazza di Città sono rossoblù, a ricordare che quella è la zona di tiro dei Picche, all’imbocco di via Palestro è ricomparso il “portale” degli Scacchi e dal muraglione dell’ospedale la grande effigie dei Credendari dà il benvenuto a chi arriva da Nord. Nelle prossime settimane anche le altre squadre faranno la loro parte, per dare un minimo di colore a un’Ivrea che, senza il suo Carnevale, è sempre più malinconica. Anche a imbandieramento completato, però, i colori riempiranno pochi spazi, il minimo sindacale per ricordare la propria presenza, l’appartenenza a una manifestazione che, pur senza cerimonie, è pur sempre nell’animo di tutti.
Non sarà l’Ivrea “vestita a festa” che amavamo ammirare fino a due anni fa, in una continuità di addobbi che la coinvolgeva tutta, tra sfumature diverse, a significare che si passava da un territorio all’altro. L’imbandieramento è un aspetto sintomatico di quanto il Carnevale di Ivrea sia un organismo in continua evoluzione, nel quale si susseguono cambiamenti radicali e piccole modifiche che, continuamente, ne cambiano il volto senza snaturarne l’essenza. Oggi come oggi sarebbe impossibile immaginare un Carnevale senza i colori delle squadre a far da cornice alle cerimonie e al passaggio dei personaggi, ma non è sempre stato così.
Fino all’inizio degli anni Ottanta, le uniche bandiere presenti in città erano quelle istituzionali: lo stemma cittadino e i simboli dei cinque antichi rioni. Nel 1982, l’avvio di quella che è poi diventata un vera e propria rivoluzione cromatica della festa: il merito è degli Arduini, che in quell’anno decisero di abbellire la città con 2.500 bandierine gialloverdi. Negli anni successivi, le altre compagini “per non essere da meno”, diedero fondo alle casse e alla fantasia per addobbare le loro zone e talvolta “sconfinando”, dando origine a liti e faide che, a ripensarci oggi, avevano un sapore persin romantico, così come lo erano quegli aranceri che, scala in spalla, passavano le serate a salire e scendere i pioli per issare i loro colori.
Oggi, come un po’ tutto, nel mondo del Carnevale, anche l’imbandieramento deve rispettare canoni severi: i “confini” sono stati stabiliti, con un accordo tra le squadre e possono variare (di poco) solo nel caso in cui si sposti una sede. L’impegno è significativo: oggi servono autoscale e molti dei supporti utilizzati devono essere regolarmente vidimati da un addetto alla sicurezza. E, in tema di sicurezza, la manovalanza deve rispettare le norme che prevedono imbraghi e caschetti protettivi.
Tra le bandiere issate in questi giorni spicca lo striscione dei Tuchini che recita Lassoma nen ch’as perda ‘l Carlervè, (non lasciamo che si perda il Carnevale) frase presa a prestito dalla canzone “A l'é turna Carlevè”, scritta da Gianfranco d’Alberto, Generale 1986 (e prima ancora Toniotto nel 1975). È significativo che questo grido sincero e accorato sorga proprio dagli aranceri, la componente che al ritorno del Carnevale, probabilmente vedrà le sue abitudini cambiate più di ogni altro aspetto della manifestazione. E allora vale al pena ricordare come la strofa che contiene quelle parole sia un monito che ogni Eporediese deve fare proprio perché il Carnevale torni sì cambiato, ma fedele a se stesso: Domse da fè Canavesan, lassoma nen ch’as perda al Carlevè; l’aqua ‘d la Dora passa e torna pì, sta bela feste ‘nvece a deuv durè (diamoci da fare, canavesani, non lasciamo che si perda il Carnevale; l’acqua della Dora scorre e non torna più, questa bella festa, invece, deve durare).
Sarà la sfida da affrontare a partire dal prossimo anno, quando (speriamo) si ritornerà a parlare di un profluvio di bandiere e di un turbinio di arance.
