Questo articolo è pubblicato sul numero 30-31 di Vanity Fair in edicola fino al 3 agosto 2021
Marina Abramović è in attesa che l’ospite avvii la riunione». Appena planata a Madrid da New York, dove vive abitualmente, Nostra Signora della Performance compare grazie a un clic su Zoom in primo piano con gli occhiali dalla montatura scura, i capelli sciolti di lato, poco trucco e molta luce attorno. Non manca molto al suo arrivo in carne e ossa a Roma per partecipare a un incontro pubblico (subito sold out) organizzato lo scorso 16 luglio al MAXXI, il Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo, con il direttore Hou Hanru.
«Il mio primo viaggio dopo tanto. Non sopporto più Zoom: l’arte ha bisogno di presenza», dice l’artista che cinquant’anni fa ha inventato le performance, la più nota delle quali s’intitola – non a caso – The Artist is Present. Risale al 2010: per tre mesi accolse quotidianamente, per 8 ore di fila e in religioso silenzio, i visitatori del MoMA di New York che, uno alla volta, potevano sedersi davanti a lei per alcuni minuti.
Da qui all’autunno l’artista sarà di nuovo presente in una dozzina di città di vari Paesi: «Si ricomincia, ma del periodo pandemico conservo il beneficio di aver smesso di prendere un aereo ogni tre giorni: sono stata in campagna, ho curato l’orto, piantato alberi, letto libri». Marina Abramović una di noi, o quasi: anziché curare il lievito madre, ha lavorato indefessa e, tra le altre cose, lo scorso settembre ha presentato alla Bayerische Staatsoper di Monaco di Baviera la prima di 7 Deaths of Maria Callas, opera-performance con cui ora è di nuovo in tournée come regista e interprete. Sul palco l’accompagna Willem Dafoe, le musiche sono di Marko Nikodijević, i costumi di Riccardo Tisci.
«Da trent’anni volevo creare un’opera contemporanea sulla Callas, adatta anche ai giovani, per raccontarne la fine. Avverto molte affinità con lei: entrambe siamo del Sagittario, forti e carismatiche, vulnerabili ed emotive. Maria è morta per amore di Onassis, io quasi morta per amore di Ulay: mi ha salvata il lavoro».
Ulay, all’anagrafe Frank Uwe Laysiepen, è l’artista e fotografo tedesco con cui Abramović ha stretto uno dei sodalizi più intensi della storia dell’arte. Chiusero la liaison nell’88 con una passeggiata-performance sulla Muraglia Cinese che sarebbe dovuta culminare nel matrimonio ma, a causa dei tradimenti di lui, sancì la separazione emotiva e artistica fino al romantico epilogo: l’incontro al MoMA durante la performance in presenza di cui si diceva. Di nuovo uno davanti all’altra, con le lacrime agli occhi: vedere su YouTube per credere.
Dal marzo dello scorso anno Ulay non c’è più: si sente sola?
«Ci siamo molto amati e molto odiati, abbiamo litigato e creato performance storiche. Tre anni prima che morisse, ci siamo perdonati tutto. Vivrà sempre in me».
A proposito di performance storiche, in mostra al MAXXI rivediamo Rhythm 0, realizzata a Napoli nel ’74 allo Studio Morra quando aveva solo 28 anni e considerata la sua più pericolosa. Queste le sue istruzioni per il pubblico: «Ci sono 72 oggetti sul tavolo che possono essere usati su di me nel modo in cui desiderate, io sono l’oggetto, mi assumo la responsabilità di quello che faccio, durata sei ore». Che cosa ricorda di quell’evento?
«Ricordo tutto. Nessuno mi prendeva sul serio e intendevo dimostrare chi ero offrendo al pubblico la libertà di fare del mio corpo ciò che voleva. A Napoli, negli anni ’70: follia».
Sul tavolo c’erano delle lamette e persino una pistola che qualcuno le puntò contro.
«All’inizio era tutto tranquillo, ma in sei ore ogni situazione può degenerare: mi tagliarono i vestiti e lembi di pelle, alla fine ero un pupazzo coperto di sangue. Allo scadere, cominciai a muovermi per la sala: scapparono tutti, incapaci di tollerare la mia presenza, emblema di ciò che erano stati in grado di fare. Se concedi a qualcuno pieno potere su di te, può ucciderti senza rendersene conto».
La rifarebbe?
«Avrei voluto, ma non è più possibile portare lamette e pistola in un museo».
Alcuni definiscono eroiche le sue performance, altri eccessive.
«Sono figlia di due eroi nazionali della Jugoslavia di Tito, cresciuta a Belgrado da una nonna religiosa e anticomunista. Sono il risultato di questo strano mix e sebbene da giovane mi sia ribellata a tutto ciò, mai avrei potuto realizzare le mie performance senza questa eredità. Fatico ancora a dire che sono serba: mi sento una creatura di quella Jugoslavia, un’incredibile unione di sei diverse repubbliche, culture e lingue dove il singolo era al servizio della società, dove si lottava per i propri ideali».
Qual è la sua battaglia?
«Il mio motto è: “Se mi dici no, questo è solo l’inizio”. Nasco per rompere i muri, per essere la prima a fare qualcosa affinché altri possano fare altrettanto».
Nel 2023, la Royal Academy di Londra le dedicherà una personale, prima artista donna in 250 anni di storia dell’istituzione.
«Un altro muro abbattuto e una grande responsabilità».
Le disuguaglianze di genere esistono anche nel mondo dell’arte?
«Non amo le etichette, non mi piace esser definita “artista donna” o “femminista”: un artista è un artista, qualsiasi sia il suo genere. Può fare cose belle o brutte, essere bravo o no. Tuttavia, non sono ingenua: so delle difficoltà
e disparità che ancora oggi molte devono sopportare sul lavoro. A loro dico di non lasciarsi impaurire, di seguire
intuito e cuore e non cedere a compromessi».
Da sacerdotessa della performance a guru online. Da qualche tempo mentre usiamo WeTransfer possiamo apprendere il suo metodo di meditazione: la conta dei chicchi di riso durante gli interminabili minuti di caricamento dei file è geniale.
«Abbiamo avuto 36 milioni di visualizzazioni nella prima settimana di questo mio nuovo progetto digitale che durerà tutto l’anno. Mi ha reso felice, ma conscia di quanto la tecnologia ci tenga sotto scacco. Semplici esercizi come contare i chicchi di riso su un tavolo o bere un bicchiere d’acqua in slow motion rafforzano il corpo
e la mente. Ho condiviso i trucchi che uso da anni per realizzare le mie performance: il “Metodo Abramović”
è universale».
FOTO: Marco Anelli
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