In tre maestosi dipinti l’artista carpigiano affronta un viaggio di conoscenza nella Babele del nostro tempo
CARPI. È un percorso di nuova conoscenza che Edi Brancolini offre con tre grandi pannelli (320X190 cm) che, ideati nel 1995, sono stati portati a completa rappresentazione in tempi di pandemia, nell’anno in cui ricorre il settimo centenario dalla morte di Dante. Alla Divina Commedia l’artista carpigiano fa riferimento, ma porta scene e personaggi a dimensione fantastica, simbolica senza perdere il contatto con l’uomo, tanto da titolare il trittico “L’umana catarsi”. Non si preoccupa Brancolini di dare immagine a “l’amor che move il sole e l’altre stelle”, il verso che conclude l’ultima cantica, il Paradiso, del sommo poeta, ma di indicare la presa di coscienza dell’assurdità dell’esistenza. E quel processo di purificazione che l’uomo cerca resta un interrogativo inquietante.
Perché il titolo “ Il Paradiso in terra”?
«Ci si illude di vivere una esistenza felice, ma siamo in una nuova Babele. Non c’è più comunicazione tra gli individui. Un misto di lingue, razze, costumi impedisce la realizzazione della società ideale. Ho pensato al “Mito di Sisifo” di Albert Camus che, succube della condanna, prende coscienza della vanità dei suoi sforzi senza speranza. Immagino la bidonville di una grande metropoli, sul fondo. Davanti, i clan che erigono la propria torre più bella. Torri barcollanti destinate a crollare. Al centro, la cappelletta di Priapo che vuole ricordare le vecchie cattedrali gotiche con le torri: sulla più alta c’è l’ape regina che tanti vogliono raggiungere, per fecondarla. Nell’altra c’è l’albero della conoscenza del bene e del male che vede pochi arrampicatori. Altri motivi: la cappelletta che richiama la Sagra di Carpi e rappresenta il Dio in terra; l’albero del Paradiso terrestre, col frutto proibito. In primo piano la favola dei fratelli Grimm, con il pifferaio che non fa sparire i bimbi. E’ un novello Noè che con la magia del suo piffero pare condurre bambini e animali su un cammino migliore. La presenza dei topini rimanda a gruppi di turisti cinesi».
La prima opera è l’Inferno…
«La chiamo “Ipogeo infernale”. E’ la rappresentazione dei vizi dell’umanità: la competizione, la sessualità, il dominio della religione, raffigurata da due sai, da cui siamo condizionati sin dall’infanzia. Il dominio dell’uomo è raffigurato da un nudo che cavalca un altro nudo, con in mano la falce della morte che indica la violazione della libertà degli altri. L’uomo che nasce dall’uovo insieme al male, il serpente, riesce a trovare l’amore. Una donna, come una lupa, sta allattando un bambino: si afferma l’idea della continuità della vita. Sullo sfondo, un dramma della società attuale: la migrazione dei popoli che stanno andando verso la luce. Tutto è immaginato come un viaggio, un percorso. Inoltre due figure, come stalattiti, rivelano una umanità quasi fossilizzata».
Come raffigura il Purgatorio?
«Con “il grande disgelo”, dove dalla profondità del mare, dal buio si affacciano esseri di metamorfosi che cominciano a vedere la luce purificante nel grande iceberg. Secondo la geologia tutto nasce della roccia: le prime cellule della vita. Una creatura, che si trasforma in un albero, riesce a trasmettere la vita. Un’altra figura, radicata alla terra, vorrebbe liberarsi per iniziare il volo in libertà, quasi alla ricerca di un livello di conoscenza molto più alto. La figura centrale, in meditazione, pare aver trovato un proprio equilibrio interiore. Per me è la figura del pensatore che esprime la luminosità totale».
Che valore ha questo lavoro?
«E’ un po’ la mia biografia perché ho iniziato nel 1995, quando con Danilo Fusi, Gerico e Impero Nigiani abbiamo preparato, con 10 opere ciascuno, la mostra sulla Commedia per la Casa di Dante in Abruzzo (Castello Gizzi di Torre de’ Passeri). Ci siamo ritornati più volte interpretando le fonti ovidiane nella Commedia, le donne, la storia di Paolo e Francesca. E persino “La Vita Nuova”, tutta illustrata da noi, esposta e presentata pure da Sgarbi a Roma presso Palazzo Firenze».
Il suo immaginario di cose si nutre?
«Di arte ma pure di letteratura. Sono un autodidatta, ma un accanito lettore. Da giovane, leggevo 50 libri all’anno. Ho amato molto i “Maudits” francesi Rimbaud, Verlaine…, e pure Breton, Aragon, Gide, Dostoevskij, la Beat Generation, Kerouac, Hemingway. L’amico scrittore Pier Vittorio Tondelli veniva spesso nel mio studio. Quando gli manifestavo di voler cambiare linguaggio, dal figurativo all’astrattismo, al concettuale, mi diceva che anche lo scrittore non deve vergognarsi di scrivere come una volta».
Quando le esporrà ?
«Durante la pandemia ho rinunciato a cinque mostre. Attendo tempi migliori…». —
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