L’ex mozzo Bertrand: spengo la tv e scaccio i pensieri che mi perseguitano
Salvate il mozzo, almeno lui. Salvate l’unico superstite del traghetto Moby Prince. «Sono passati trent’anni, ma non è cambiato niente. Non mi sono più avvicinato al mare, non lo voglio neanche vedere. Continuo a prendere psicofarmaci e aspetto ancora giustizia. Voglio sapere la verità. Perché sono venuti a soccorrerci così tardi? C’era anche mio zio fra i membri dell’equipaggio, si chiamava Gerardo Guida, è una delle 140 persone che sono morte fra le fiamme».
Il mozzo Alessio Bertrand adesso ha 53 anni, è disoccupato e invalido all’80 per cento. Vive ancora a Ercolano (Napoli), dove aveva imparato a fare il marinaio: «È sempre lo stesso incubo. Mi rivedo sospeso nel vuoto, fino all’arrivo di due ormeggiatori. Da sotto urlavano: “Buttati! Buttati!”».
«Avevano paura che il traghetto esplodesse. Io – riprende a raccontare – mi sono buttato e adesso, questa data dell’anno mi obbliga a ricordare, ma non voglio. Devo spegnere la televisione, devo scacciare i pensieri che mi perseguitano. Vivo una vita senza passato e senza futuro. Io e mia moglie Raffaella stiamo crescendo due figli autistici nella solitudine più totale, abbandonati da tutti. E quando mi sento male per i ricordi e mi viene la depressione, mi devo imbottire di psicofarmaci, allora mia moglie resta più sola ancora».
Dopo un’indagine preliminare, un processo, un processo d’appello («hanno tenuto in considerazione testimonianze palesemente false e ignorato testimonianze palesemente vere»), dopo una commissione parlamentare d’inchiesta, ci sono adesso pochi fatti certi.
Quella notte non c’era nebbia, come subito qualcuno aveva sostenuto forse per giustificare la lentezza e la disorganizzazione dei soccorsi. La visibilità era buona. La petroliera Agip Abruzzo stava in una zona interdetta all’ancoraggio e non dove aveva sostenuto di essere. Quel tratto di mare era molto affollato. Navi americane trasportavano armi. Navi cariche di rifiuti tossici aspettavano alla fonda. Pescherecci andavano e venivano.
«Quella notte davanti al porto di Livorno c’era una serie di interessi economici divergenti che avrebbero potuto creare imbarazzi. Usare il traghetto come capro espiatorio, è stato il modo per non doverli rendere pubblici», dice l’ingegnere Gabriele Bardazza, consulente tecnico dell’associazione dei familiari delle vittime.
Ora un’altra commissione parlamentare di inchiesta dovrà lavorare sulla mole dei dubbi . — N.Z.
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