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Edgar Morin, il filosofo superstar: «Sogno Livorno per tornare alle mie radici»

Edgar Morin, il filosofo superstar: «Sogno Livorno per tornare alle mie radici»

Alle soglie dei cent’anni è il big fra i pensatori contemporanei. Nel suo libro appena uscito ancora un omaggio alla nostra città che su proposta dell'assessore Lenzi ha deciso di farlo cittadino onorario

LIVORNO. A un passo dal giorno in cui compirà cent’anni a luglio, in questo mondo stravolto dal Covid, l’ultimo sogno di Edgar Morin – una delle più grandi menti del Novecento europeo – riguarda Livorno. Lo confessa nell’ultimo libro appena uscito (titolo: “I ricordi mi vengono incontro”): lui, filosofo e sociologo, dice che vorrebbe proprio «andare a Livorno per ricevere la medaglia per la cittadinanza onoraria che mi ha promesso il sindaco della città». Per singolare coincidenza il libro è uscito in Italia per Raffaello Cortina Editore pressoché in contemporanea con la delibera del consiglio comunale che, per una volta all’unanimità, su proposta dell’assessore alla cultura Simone Lenzi ha deciso di farlo “cittadino di Livorno”.



«Orfano di questa toscana dove avrei voluto vivere»

«Stendhal – dice Morin – voleva che si scrivesse sulla sua tomba che era milanese. Io voglio soltanto essere riconosciuto come orfano di questa Toscana dove avrei dovuto vivere, dove per poco non ho vissuto». Non potrebbe essere più affettuosa la sottolineatura che ci dedica questo gigante del pensiero. Non è una strizzatina d’occhio buttata lì, un po’ alla Ibrahimovic che a inizio stagione bacia ogni maglia dicendo che «fin da bambino ho sempre sognato di indossare questa maglia». Storia su Instagram, scatto per le prime pagine e vai fino al prossimo trasferimento.

No, nella ricerca intellettuale di Morin, Livorno significa “radici”: ma di quelle profonde. Soprattutto da quando ha recuperato il rapporto con il padre Vidal. Non dev’essere un caso che salti fuori come pure il padre avesse in mente Livorno come l’approdo dell’esistenza: aveva piantato la sua donna («non potendone più delle torture che gli infliggeva») ed era incerto se «stabilirsi a Livorno, da cui venivano i suoi progenitori, o a Cannes dove abitava il suo amico d’infanzia, il dottor Matarasso», salvo poi ritornare da lei, fingendo che glielo chiedesse il figlio. Lo stesso mancato appuntamento con il ritorno a Livorno riguarderà le spoglie del padre: Morin ammetterà di aver sbagliato, «avrei dovuto pensare a Livorno, città dei suoi progenitori, dove sognava di concludere la sua vita». Come dirà poi in “Il mio cammino”, libro-intervista del 2013, Vidal vedeva in Livorno «la culla della sua famiglia». In una intervista di due anni fa al Corriere della Sera afferma: «Sono molto fiero che i miei antenati, ebrei sefarditi, provengano da Livorno».



Qui il centro di gravità permanente come Caproni

A quanto è dato sapere né l’uno né l’altro ce l’hanno fatta a rimettere piede a Livorno, eppure tanto in Edgar Morin che nel padre Vidal questo spazio geografico – Livorno, appunto – prende la fisiognomica di un luogo mitico dell’immaginario. Un centro di gravità permanente: qualcosa di simile a quel che capiterà al poeta Giorgio Caproni. Con tutte le differenze del caso: perché Caproni a Livorno c’era nato davvero e si era stampato nell’album degli amarcord una carrellata di immagini catalogate durante fino a 11 anni. Morin no: figurarsi che la famiglia mette radici a Livorno sì, ma nel Settecento prende la valigia e si trasferisce a Salonicco.

Anche questo non è un caso: a Salonicco fa fortuna una folta «comunità di ebrei, spesso di origine sefardita ma molto italianizzati» provenienti da Livorno, l’aveva ricordato Morin nel libro degli anni ’90 dedicato a “Vidal mio padre” (Sperling & Kupfer). Con la protezione consolare asburgica (con l’Austria che tutelava il Granducato toscano), beneficiando della protezione inglese e soprattutto francese, e dall’Unità d’Italia in poi una sorta di estensione della cittadinanza italiana che mette gli ebrei – ex livornesi e a quel punto greci – al riparo dei rigori della giustizia israelitica ma anche dalle grinfie di quella ottomana.

A Salonicco lo sbarco del cosmopolitismo livornese

Quanti? Morin dice che è una comunità spalancata sul cosmopolitismo internazionale ma al tempo stesso chiusa rispetto all’esterno locale: stiamo parlando di 2mila persone nate da livornesi o comunque da toscani a metà Ottocento (e in tutto saranno 3mila gli italiani riconosciuti dal neo-stato sabaudo in quella città greca poco più tardi). È livornese – dice nella sua indagine del ’95 sui suoi ascendenti – «il grosso della colonia franca che prende in mano gli scambi internazionali e la mediazione»: insomma, il «predominio sul mercato locale» e «un ruolo di primo piano nelle transazioni con l’Occidente», spiega facendo riferimento anche agli studi di Joseph Nehama sui “livornesi di Salonicco”.

«Dispensati dalle imposte, privilegiati nel loro status, parlando italiano e francese, i livornesi costituiscono una specie di punto di convergenza fra sefarditi, greci, toscani, austriaci, francesi e, più in generale, fra ottomani e occidentali nell’Impero ottomano: sono le famiglie di origine livornese che nel corso dell’Ottocento domineranno economicamente e guideranno culturalmente la città». Fondano banche moderne (i Modiano), creano nuove industrie (gli Allatini), dribblano tanto il potere rabbinico che quello turco, e portano l’illuminismo nella città sefardita. Con una specificazione che riguarda il centro dell’albero genealogico della sua famiglia: i Nahum, i Frances e i Beressi arrivano a fine Settecento, i Mosseri alla metà del secolo successivo.

E i Morin? Fin qui abbiamo parlato di Morin ma, a dire il vero, il nome che stava scritto sulle carte d’identità era un altro: Nahoum. Anzi, sarebbe Nahum («è l’ortografia normale del mio patronimico», la “O” là in mezzo è «un errore dello stato civile francese»). Ai “livornesi” e alla “famiglia livornese” dedica già molte pagine nello studio sulle radici della sua famiglia.

Quella svista sul certificato anagrafico

Anche “Morin” è una svista: quando il pressing della Gestapo si era fatto più asfissiante, aveva scelto di chiamarsi “Manin” (come il patriota dell’indipendenza veneta che per bizzarra coincidenza era pure di origini ebraiche) ma la ragazza che lo accoglie capisce male e lo presenta appunto ai compagni come “Morin” e lui inizia la nuova esistenza. Quanto alla dinastia dal lato della madre – cioè i Beressi e i Mosseri – Morin ne rispolvererà il cognome quando toglierà la firma dalla sceneggiatura di un film anni ’60 e per screzi con il regista Henri Calef utilizzerà il cognome materno (Beressi).

Il riassunto di questa parabola plurisecolare della propria famiglia, Morin lo rende così: «I miei ascendenti paterni venivano sì dalla Spagna, ma erano stati accolti a Livorno dal Granducato di Toscana dopo un soggiorno a Amsterdam». Quanto al ramo dinastico materno, «sembra fossero di un ceppo italiano più antico. Ma tutti sono andati da Livorno a Salonicco, e tutti vi avevano adottato la lingua giudeo-spagnola che serbarono in Francia come lingua familiare».

Come sottolineato in un libro-colloquio del 2007, quella di Morin «era una famiglia “laica” da almeno tre generazioni e il riferimento non era tanto all'ebraismo religioso quanto a “los nuestros”, cioè quella tradizione sefardita «senza riti né credenze». Morin la riassume così in “Io Edgar Morin”: «Ecco dunque la mia identità confusa: ero un ebreo non-ebreo, un non-ebreo ebreo, ero del gruppo di quelli a cui non appartenevo e non ero parte di quelli cui pure sentivo di appartenere». Dirà poi: «Il mio nonno materno Salomon Beressi non credeva in Dio, quello paterno David Nahum aveva smesso di osservare strettamente le prescrizioni mosaiche» eppure «entrambi festeggiavano la Pasqua in famiglia» e «partecipavano ai matrimoni e ai funerali in sinagoga: aveva per loro il valore di una appartenenza culturale e etnica a una comunità, non il senso di una obbedienza religiosa a Dio».

Conosci il paese dove fioriscono gli aranci?

Nel libro appena uscito, Morin disegna questa suggestione affidandosi a un’opera che in Francia andava per la maggiore: la “Mignon” di Thomas Ambroise, in cui c’è un’aria in cui un personaggio sradicato dalle proprie origini, sente una nostalgia olente: “Conosci il paese dove fioriscono gli aranci?”. «Come se quest’aria mi regalasse la nostalgia di un paese natale perduto», dice Morin ricordando che il libretto poi continua: “Là dove vorrei vivere, amare e morire”: parole che «già mi sconvolgevano, mi attanagliano sempre più le viscere con l’età e mi rendono umidi gli occhi».

Non dev’essere solo una coincidenza se una parte della dynasty di casa Nahum-Morin sceglierà la Toscana per rifugiarsi in tempi grami, quando i nazisti invasero nella primavera ’41 la loro zona nei Balcani. Una parte di loro vivrà l’esperienza che solo di recente gli storici stanno rivalutando con la “Resistenza nascosta” fatta del piccolo eroismo quotidiano di tante famiglie che forse non erano combattenti partigiani ma non si tiravano indietro quando c’era da nascondere qualcuno. Tutti salvi tranne lo zio Jacques che morirà nell’estate ’44 nell’insurrezione per liberare Firenze dalle Ss e dai delinquenti repubblichini della Banda Carità.
 

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