Era una sentenza avanzata, una decisione che finalmente stabiliva un principio fondamentale: i giudici non sono una casta al di sopra delle critiche, sono un potere esposto come ogni altro potere al controllo dell'informazione e dell'opinione pubblica, anche se il magistrato si chiama Antonino Di Matteo ed è un'icona dell'antimafia. Ma la Procura generale di Milano chiede di cancellare la sentenza, e di condannare per diffamazione il giornalista, Giuliano Ferrara, che quella sentenza aveva assolto. Per la Procura generale criticando Di Matteo si delegittima la magistratura: peggio, si "intacca l'autorevolezza e l'imparzialità dell'intero sistema giudiziario". È un reato di lesa maestà, insomma, davanti al quale "lo Stato ha l'obbligo di intervenire per tutelare il singolo magistrato e per preservare la fiducia della collettività nella Giustizia". Quella con la G maiuscola.Cosa aveva detto di così grave, Ferrara? Semplicemente, aveva messo in discussione una delle architravi del processo sulla trattativa Stato-mafia, condotto (e poi vinto) da Di Matteo davanti alla Corte d'assise di Palermo. Le intercettazioni delle chiacchierate tra Totò Riina e un altro detenuto nel cortile del carcere di Opera venivano definite nell'editoriale sul Foglio una "spaventosa messinscena" imbastita da "qualche settore d'apparato dello Stato italiano", con l'obiettivo di "mostrificare il presidente della Repubblica (all'epoca Giorgio Napolitano, ndr), calunniare Berlusconi e monumentalizzare il pm Di Matteo e il suo traballante processo".Benché - anche ad una lettura superficiale - fosse chiaro che non era lui a venire indicato come autore della messinscena, Di Matteo sporse querela. La Procura di Milano, non sospettabile di simpatie per Giuliano Ferrara, chiese l'archiviazione. Di Matteo si oppose, riuscì a portare Ferrara a processo. E qui il giornalista venne assolto con una sentenza a suo modo storica: "Il diritto di critica - scrisse il giudice Maria Teresa Guadagnino - si concretizza nella espressione di un'opinione che, come tale, non può ritenersi rigorosamente obiettiva". E "la libertà riconosciuta dall'articolo 21 della Costituzione di manifestazione del pensiero e di formulazione di critica nei confronti di chi esercita funzioni pubbliche comprende il diritto di critica giudiziaria, ossia l'espressione di dissenso, anche aspro e veemente, nei confronti dell'operato di magistrati i quali, in quanto tali, non godono di alcuna immunità".Parole sante, si direbbe. E infatti la Procura della Repubblica di Milano non fece ricorso. Il dottor Di Matteo non aveva il diritto di impugnare la sentenza. Ma non si è arreso: il 9 aprile ha scritto ai suoi colleghi della Procura generale di Milano chiedendo che fossero loro ad impugnare l'assoluzione di Giuliano Ferrara. Dieci giorni dopo, la Procura generale esaudisce i suoi desideri: "Tale richiesta appare condivisibile e va pertanto accolta".Al direttore del Foglio, il sostituto procuratore generale che firma il ricorso rimprovera di essere ricorso alla "biasimevole tecnica dell'insinuazione" e ad espressioni "pretestuosamente denigratorie e sovrabbondanti", realizzando così un "attacco personale e professionale" a Di Matteo. E accusare Di Matteo "ha come effetto immediato non solo intaccare la dignità del singolo ma anche l'autorevolezza e l'imparzialità dell'intero Sistema Giudiziario". La casta, insomma, difende se stessa.