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La Serbia sta chiudendo i centri di accoglienza. Migranti rispediti a sud o lasciati passare: per Belgrado i soldi Ue non sono più sufficienti

Mohamed ha 13 anni ed è arrivato al centro di accoglienza di Sid, al confine tra Serbia e Croazia, da quattro giorni. Sei mesi fa è partito da Deir Ezzor, la città siriana al confine con l’Iraq che è stata una delle ultime roccaforti dell’Isis, e adesso come milioni di profughi disperati partecipa al “Game“, il gioco, termine che identifica il percorso a ostacoli lungo la Rotta Balcanica: “Devo arrivare in Germania da mia sorella. La mia famiglia sa che sono in Serbia e che sto bene e mi aiuta quando ho bisogno. Per farmi arrivare in Europa ha venduto un terreno e ipotecato la casa”.

Mohamed ha davvero il volto di un bambino, sorride e tira qualche calcio a un pallone all’interno del campo gestito dallo Stato serbo. Sid, dedicato ai minori non accompagnati, è l’unico centro di transito rimasto aperto. Gli altri sono stati chiusi dal governo di Belgrado negli ultimi mesi, a partire da quello di Subotica al confine con l’Ungheria.

“Dalle notizie in nostro possesso dovrebbe chiudere anche questo nel giro di poche settimane. La Serbia ha scelto una strategia nuova, lasciandone aperti una dozzina a sud, lungo il confine con Bulgaria, Macedonia del Nord e Kosovo. Quando la polizia ferma i migranti li porta direttamente laggiù, un modo per far loro capire che la Rotta Balcanica serba non è più così vantaggiosa e sicura. Dietro ci sono anche motivazioni economiche. Gestire i campi costa, mandarne avanti 19 o 10 fa la differenza”. Daniele Bombardi è il coordinatore di Caritas Italia per l’area dei Balcani, dove vive e lavora da quasi vent’anni. Esperto di migrazioni e dell’area balcanica, Bombardi analizza la situazione attuale: “Il 2023 è stato forse l’anno con più transiti lungo la rotta dell’Europa orientale in territorio serbo, con oltre 108mila migranti registrati. All’improvviso, dal gennaio scorso, il numero è drasticamente sceso a circa 2mila unità al mese. Si stanno aprendo nuovi percorsi, dal Montenegro verso la Croazia, in Bosnia. I Balcani sono tra l’incudine e il martello, una regione fragile che ancora deve riprendersi dalle ferite dei conflitti degli anni ’90. Il contesto migratorio resta dinamico anche se negli anni la tipologia generale dei migranti è cambiata. All’inizio incontravamo persone abbienti e con una formazione alle spalle, adesso sono sempre più poveri, provengono da contesti rurali. Caritas qui fa del suo meglio anche sotto il profilo umano e psico-sociale, non solo sotto l’aspetto pratico. Queste persone hanno subìto traumi e hanno bisogno di quel calore che i nostri operatori possono garantire”.

La Serbia, come praticamente tutti i Paesi balcanici ancora fuori dall’Ue, sta trattando con Bruxelles in vista di un eventuale ingresso. Sul tavolo c’è anche il delicato tema dell’immigrazione e della sua deterrenza. Oltre alla valanga di miliardi di euro girati ad Ankara per limitare il flusso migratorio tra Oriente, Medio Oriente ed Europa, l’Unione europea sostiene Belgrado nello svolgere il ruolo di argine all’arrivo di potenziali richiedenti asilo. L’erogazione di contributi economici all’area balcanica non si ferma. Lo scorso anno Bruxelles ha garantito 60 milioni di euro ai Paesi dei Balcani Occidentali, Serbia compresa. Il presidente Aleksandar Vucic sta però chiudendo tutti i campi possibili anche per risparmiare sui costi di gestione. Statistiche alla mano, dall’inizio della crisi migratoria nel 2015, con l’avvio della rotta a est, l’Ue nei tre anni successivi ha elargito a Belgrado aiuti per oltre 100 milioni di euro. Ora le partite di giro iniziano ad avere un ammontare inferiore.

Mohamed e gli altri quattordici minori siriani rimasti a Sid hanno appena mangiato e siedono davanti ai pc messi a disposizione dalla Caritas locale: “Ci riposiamo un po’, ma presto ripartiamo verso la Germania”, dice il ragazzino prima di salutarci. Quando anche lui e gli altri siriani se ne saranno andati, il campo di Sid abbasserà la saracinesca fino a data da destinarsi. Difficilmente chiuderà, almeno per ora, il centro per richiedenti asilo di Krnjaca, a una dozzina di chilometri a nord est di Belgrado. La struttura, attiva dal novembre del 2015, è stata realizzata di fianco a un campo rom, sfruttando le casette degli operai di una ditta della zona. Anche qui i numeri sono molto diversi rispetto a pochi mesi fa, con punte fino a 830 persone, il massimo della capienza, ridotte ad appena 99 unità: “Ci sono alti e bassi, ma noi siamo sempre pronti e organizzati”, spiega il responsabile del Commissariato che gestisce tutti i campi profughi per conto della Presidenza del Consiglio serbo. Krnjaca è un centro dedicato ai soggetti fragili, famiglie con bambini a carico: “Al momento la quasi totalità degli ospiti è di nazionalità burundese, ma abbiamo gruppi di siriani, rumeni e una famiglia kazaka. In passato sono entrati anche cubani, mongoli e altre nazionalità particolari”, aggiunge il responsabile del campo.

La storia della comunità del Burundi in Serbia merita di essere raccontata. Tutto è iniziato alla fine del 2021 quando il governo del piccolo Paese dell’Africa centrale si è ufficialmente rifiutato di riconoscere il Kosovo, accarezzando il nazionalismo di Belgrado. In cambio il presidente Aleksandar Vucic ha concesso un regime di visti libero per gli abitanti del Burundi che ne hanno subito approfittato: nel giro di sei mesi quasi un migliaio di civili è salito sul volo diretto tra Bujumbura e Belgrado per trasferirsi nel cuore dei Balcani, magari col sogno di spostarsi altrove. Ad aprile 2022 il sistema dei visti liberi è stato interrotto, prima che assumesse proporzioni fuori controllo. La maggior parte dei burundesi nel frattempo ha fatto perdere le proprie tracce, ma un’ottantina di loro, da allora, vive dentro il campo: “Due bambini di pochi mesi sono nati qui – confermano il direttore del campo e le operatrici di Caritas -, le famiglie non hanno prospettive di sorta. I bambini si stanno aprendo e i rapporti con gli altri piccoli presenti dentro il campo è buono, il colore della pelle non fa alcuna differenza”. Almeno per i bambini, diverso il discorso tra gli adulti. In Serbia è difficile, se non impossibile, incontrare migranti africani. Le cose stanno cambiando per i mediorientali vista la carenza di forza lavoro: “Negli ultimi dieci anni la popolazione serba ha perso un milione di unità a causa degli espatri verso altri paesi europei e negli Stati Uniti. Servono braccia forti per supportare la crescita”.

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