Il Capitano rischia il declassamento a tenente dopo gli errori su migranti e Russia. Ci vorrebbe un congresso, ma da Zaia a Giorgetti in pochi sono pronti al regicidio
Quando oggi i risultati si consolideranno, quando sarà chiaro se la Lega riesce ad agguantare la doppia cifra o sprofonda al di sotto, comunque sia lontano anni luce dal 34 per cento del 2019 o anche solo dal 17 delle ultime Politiche, al quartier generale di Matteo Salvini non resterà che cercare di vedere il bicchiere mezzo pieno: la coalizione è avanti, andiamo a governare. «Giulia Bongiorno sarebbe un grandissimo ministro della Giustizia. Agli Esteri vi prometto un diplomatico, alla Salute un medico», andava impegnandosi solo una settimana fa il leader leghista: per lui, ça va sans dire, il sogno che solo l’amica Giorgia può realizzare sarebbe tornare al dicastero dell’Interno, alla peggio alle Infrastrutture, che ha comunque voce in capitolo sui famosi porti chiusi contro l’arrivo di immigrati. Eppure, mentre girava per piazze promettendo e decantando, ancora ieri quando si illudeva, o forse mentiva sapendo di mentire, che la Lega sarebbe stata «sul podio: prima forza politica, seconda o terza al massimo», chi lo conosce bene racconta che in realtà lo accompagnava una paura, un timore di sottofondo che agita i sonni di ogni leader proiettato verso una sconfitta: essere fatto fuori. Soprattutto se oggi, a spoglio concluso, dovesse essere certificato il sorpasso di Fratelli d’Italia sulla Lega anche nelle regioni culla del leghismo, il Veneto e la Lombardia.
Nell’«ultimo partito leninista d’Italia» - copyright Bobo Maroni – sostituire il segretario è operazione complicata. «Non siamo mica il Pd», ridacchiano nel Carroccio quando si prova a indagare su quale futuro possa aspettare il Capitano, retrocesso nel cuore di molti sì e no a tenente. I gruppi parlamentari saranno plasmati a sua immagine e somiglianza. Ci vorrebbe un congresso, che non si tiene da tempo, ci vorrebbe una fronda in Consiglio federale, dove invece siedono quasi esclusivamente uomini a lui vicini, ci vorrebbero capicorrente determinati a organizzarsi per metterlo in minoranza – ma i leghisti più autorevoli, da Zaia a Fedriga a Giorgetti, non sembrano pronti al regicidio. Questo però non vuol dire che la débâcle di Salvini possa passare inosservata, che i governatori veneto e friulano, il volto istituzionale della Lega, non saranno da qui in avanti ancora più insidiosi per il segretario – loro sì che hanno i voti, e lo hanno dimostrato –, che i territori del Nord non approfondiscano la distanza dal partito. «L’autonomia vale anche la messa in discussione di un governo», ha avvertito Zaia domenica scorsa dal pratone di Pontida sventolando una bandiera con il leone di San Marco: preoccupato dal successo annunciato di Meloni, che renderà giocoforza la Lega vassalla.
«Salvini mi ricorda Gianfranco Fini alla fine della sua guida di An: quando nessuno più lo sopportava, i colonnelli vennero beccati a parlare male di lui in un bar, ma nessuno aveva la forza di rimuoverlo», raccontano dalle stanze degli alleati Fratelli d’Italia, dove più per convenienza che per simpatia hanno dovuto ricominciare a frequentarlo. Freddi e obbligati i rapporti con Meloni, migliori quelli con Silvio Berlusconi: anche se lo vede un po’ come il figlio scapestrato, «ha bisogno di essere un po’ inquadrato, anche lui non ha lavorato mai», raccontava candidamente ieri. Nel Carroccio lo hanno seguito nella campagna anti-migranti che, da ministro dell’Interno, lo ha portato a raddoppiare i voti cannibalizzando il Movimento cinque stelle, ai tempi del governo gialloverde. Hanno assecondato il tentativo di una Lega nazionale, espansa al Sud, quando sembrava che tutto quello che toccava diventasse oro. Poi hanno assistito stupefatti al disastro del Papeete, il governo fatto cadere tra un mojito e un ballo con una cubista: da lì in poi, sanno bene, è stato tutto un percorso a ostacoli. La Lega nazionale abortita, la campagna sui migranti riproposta anche in questi due mesi ma incapace ormai di fare presa sulla gente, distratta da altri e più urgenti problemi, la posizione ambigua sui vaccini, il rocambolesco viaggio a Mosca programmato e poi fatto saltare, le dichiarazioni ondivaghe sulla guerra e le armi a Kiev. Per ogni errore suo, un punto messo a segno da Meloni, implacabile, ogni elezione locale un piccolo aumento: non poteva bastare far cadere il governo Draghi che si era sostenuto fin lì per recuperare sull’alleata. E da ieri il confronto tra i due partiti è impietoso.
«Ma le avvisaglie c’erano tutte, già nei risultati delle amministrative di giugno, possibile non li abbia visti nessuno?», sussurrava ieri un leghista inviperito. Ieri sera, qualcuno chiedeva già di muoversi per impedirgli di trattare da solo con Giorgia Meloni sui posti di governo. E molti nel Carroccio aspettavano di vivisezionare i primi commenti dei governatori, ma anche del ministro Giorgetti, il “governista” dell’esecutivo Draghi, defilato e silente in campagna elettorale. «Gioco per vincere, non per partecipare», dichiarava ancora smargiasso Salvini al mattino alle urne, prima di trascorrere la giornata con la figlia in un agriturismo. Stavolta ha solo partecipato. La prossima volta, il resto del partito potrebbe impedirgli persino quello.