«Le canzoni sono un bene più affidabile del petrolio o dell'oro perché la domanda di musica è impermeabile agli sconvolgimenti economici e politici. Un brano evergreen è una fonte di reddito prevedibile e affidabile per decenni in un mondo che per sua natura è imprevedibile». In queste parole affidate al Guardian c'è tutta la filosofia che muove Merck Mercuriadis, 57 anni, il manager che ha messo in moto la più grande rivoluzione economica di sempre nel music business.
Canadese, ex dirigente della Virgin Records di Richard Branson e manager di artisti come Elton John, Beyoncé e Guns N' Roses, Mercuriadis si è dato una missione: radere al suolo il mercato dei diritti delle canzoni così come lo abbiamo conosciuto finora. Nel suo credo, le canzoni di successo sono una fonte inesauribile di denaro sfruttata poco e male per l'inadeguatezza di chi le ha gestite finora. Per questo si è messo in proprio, ha fondato la Hipgnosis Songs Fund, quotata in Borsa a Londra, ha stanziato un miliardo e 700 milioni di dollari per gli investimenti e ha comprato dagli autori i diritti di 57 mila brani che adesso sono il suo tesoretto.
Da Umbrella di Rihanna a Single Ladies di Beyoncé, passando per Sweet Dreams degli Eurythmics, Livin' on a prayer di Bon Jovi, Despacito di Louis Fonsi e All I want for Christmas is you di Mariah Carey.
Si definisce essenzialmente un manager delle canzoni, Mercuriadis: per lui ogni brano è un singolo asset del suo business, un asset da curare e sfruttare con attenzione maniacale per garantire un flusso costante di denaro a lui, alla sua società e agli autori dei brani che fanno cantare e ballare il mondo. Le canzoni nello schema economico di Mercuriadis devono infiltrarsi come l'acqua dappertutto: negli spot, nelle trasmissioni televisive, nei videogames, come colonna sonora degli eventi sportivi di massa, così come nei film e nelle serie tv.
Senza dimenticare poi i diritti che discendono dalla citazione di brani famosi all'interno di altre canzoni, le cover, i remake e le royalties generate dall'utilizzo delle canzoni sulle piattaforme streaming, i cui abbonamenti sono lievitati sensibilmente in questo tempo pandemico senza eventi live. Mercuriadis sa bene che le royalties per gli autori derivanti dallo streaming sono oggettivamente esigue, ma da uomo di business pragmatico ha fatto due conti e ha capito che lo streaming riesce a tenere legate alla musica decine di milioni di persone, disposte a pagare 120 euro per un anno di abbonamento con tutti i brani del mondo a disposizione, ma che non comprerebbero mai un singolo vinile o un cd a 20 euro. Al centro della rivoluzione Mercuriadis ha messo un concept semplice: una canzone che è entrata nell'immaginario collettivo ha una vita lunghissima, più lunga di quella del suo autore. Un brano best seller può produrre introiti per più di 50 anni. Basta trattarlo come un prodotto pregiato da collocare e ricollocare sul mercato, studiando con cura tutti i possibili utilizzi nei vari ambiti in cui la musica è un ingrediente essenziale.
Metodo e dedizione sono la ricetta di Mercuriadis e del suo staff: se nella discografia tradizionale un publisher si occupava di decine di migliaia di brani, nella Hipgnosis Songs Fund ogni singolo esperto di diritti si prende cura incessantemente soltanto di qualche centinaia di canzoni, scegliendo con cura dove e a chi piazzarle perché ogni giorno producano ricavi. E ai puristi della musica terrorizzati da un uso indiscriminato dei loro brani preferiti, Mercuriadis ha risposto con un'intervista al Guardian: «Il miglior modo per uccidere una canzone speciale è utilizzarla nello spot di un fast food». Ovvio che un approccio nuovo, come quello di Hipgnosis Songs Fund, abbia avuto l'effetto di un tornado sulla discografia tradizionale e sui suoi riti collaudati. Un processo accelerato anche dalla pandemia che ha chiuso il rubinetto degli introiti da concerti. Senza tour in vista e con le vendite dei dischi ridotte al lumicino, alcuni dei più grandi artisti over 70 hanno scelto di vendere il loro catalogo. Bob Dylan, il più grande cantautore di sempre, ha ceduto alla Universal 600 brani per una cifra che oscilla tra i 300 e i 400 milioni di dollari. Neil Young ha fatto più o meno lo stesso vendendo alla Hipgnosis, così come David Crosby che ha ceduto le sue canzoni alla Iconic Artist Group.
Poi, c'è il caso Taylor Swift: Scooter Braun, il manager proprietario delle registrazioni dei primi sei album della popstar ha venduto i master originali di quei brani non alla cantante ma a un'azienda privata per 300 milioni di dollari. Una mossa che ha messo la Swift con le spalle al muro. Fino a quando non ha deciso di far saltare il banco reincidendo da capo quei dischi con l'aggiunta di qualche «bonus track». Un trucco legale per ritornare in possesso, di fatto, del suo catalogo e di quelle canzoni che l'hanno fatta diventare una star mondiale. Anche questo è il music business: una giungla dove tre minuti di un brano sono più pregiati dell'oro e del petrolio… n
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