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Delitto dell’Olgiata, libero Manuel Winston Reyes che uccise la contessa

Chissà che cosa avrebbe detto Pietro Mattei. Chissà, se fosse stato ancora vivo, come avrebbe reagito il marito della contessa Alberica Filo della Torre alla notizia che l’assassino di sua moglie, il maggiordomo filippino Manuel Winston Reyes, dopo solo dieci anni di carcere è già tornato libero. L’imprenditore romano, che dopo l’assassinio di sua moglie avvenuto il 10 luglio del 1991 nella loro villa all’Olgiata, dedicò vent’anni della sua vita a dar la caccia al responsabile, di certo non avrebbe mancato di far sentire il suo disprezzo.

Ci ha pensato suo figlio Manfredi, che all’epoca del delitto aveva nove anni, a protestare per lui: «La battaglia della vita di mio padre è stata defraudata in modo indecoroso», ha detto. Ma chi era Alberica Filo della Torre? Chi Pietro Mattei? E che cosa accadde all’Olgiata?

Winston Manuel Reves (Foto Ipa)

Una coraggiosa ragazza aristocratica
Bella, nobile, ricca e coraggiosa. Alberica Filo della Torre nasce a Roma il 2 aprile 1949. Sua madre, Anna del Pezzo di Caianello, è una duchessa. Suo padre, Ettore della Torre di Santa Susanna, un contrammiraglio eroico che durante la guerra si è distinto combattendo a bordo dei sottomarini italiani. Dopo gli studi in collegio, a diciott’anni Alberica entra in società e la vita è tutto un divertimento: lo shopping nelle boutique più alla moda di Roma, le settimane bianche sul Terminillo, il primo amore.

Un matrimonio fallito
Lui è un vero principe, Alfonso de Liguoro, affascinante ma un po’ spiantato. A suo padre non piace, ma Alberica non sente ragioni. Il matrimonio, celebrato in inverno nella villa materna dell’Olgiata, la stessa dove poi avverrà il delitto, va presto a rotoli. Delusa, dopo l’annullamento delle nozze alla Sacra Rota, Alberica non si dà pace. Si isola, rifiuta gli inviti alle feste, si chiude in se stessa. Per distrarla, i genitori la convincono a partire per un lungo viaggio: Montecarlo, Londra, New York. Al ritorno a Roma, però, non è cambiato niente: Alberica sente che la sua vita è finita. Di nuovo si lascia andare alla tristezza. Ma la svolta è dietro l’angolo.

L’amore della vita
La svolta ha un nome: Pietro Mattei. È un imprenditore edile, un uomo solido, un gran lavoratore, uno che si è costruito la propria fortuna con le sue stesse mani. Non fa parte dell’ambiente di Alberica. Ma una sera, a una festa dove lei non voleva andare, qualcuno li presenta. Uno sguardo, un sorriso e per entrambi è colpo di fulmine. In men che non si dica si sposano. È il 10 luglio del 1981. Poi, la vita è meravigliosa: due bellissimi figli, Manfredi e Domitilla, i viaggi, le splendide feste nella villa dell’Olgiata, che Alberica ha restaurato curandone personalmente tutti i dettagli. Ma la tragedia è dietro l’angolo.

Il delitto in un giorno di festa
Accade la mattina del 10 luglio 1991. All’Olgiata c’è un via vai di operai: fervono i preparativi per la festa che Alberica e Pietro intendono dare per i loro dieci anni di matrimonio. La piscina è già piena di ninfee. Alle 7.30 una cameriera porta la colazione alla contessa. Un’ora dopo la signora scende al piano di sotto, poi torna nella sua camera. Intorno alle 9.15 una domestica e la figlia Domitilla bussano alla porta della sua stanza. Ma è chiusa dall’interno e nessuno risponde. Tra le 10 e le 10.15 riprovano inutilmente. Preoccupata, la cameriera cerca la seconda chiave, apre la porta e trova la signora stesa a terra, morta, la testa avvolta in un lenzuolo insanguinato.

Scatta l’allarme, arrivano i carabinieri. A un primo esame, sembra che qualcuno abbia stordito la contessa colpendola con uno zoccolo e poi l’abbia strangolata. L’assassino ha rubato i gioielli. Per gli investigatori è qualcuno che la vittima conosceva bene, una persona che sapeva come muoversi dentro la villa. Ma è un’intuizione che lascia il tempo che trova, perché subito i magistrati decidono che il delitto è passionale. Il primo a finire nel mirino è Pietro Mattei. «Dov’era quando sua moglie è stata uccisa?», gli chiedono. E siccome l’imprenditore era al lavoro, e né lui né la contessa avevano un amante, questa pista non porta a niente.

Un giallo durato vent’anni
I sospetti allora si concentrano su un vicino di casa, un giovane con problemi psichici che però col delitto non c’entra. Poi su un domestico filippino, Manuel Winston, che la signora ha licenziato poco tempo prima di morire. Il telefono dell’uomo viene messo sotto controllo. Ma l’ipotesi che a uccidere la nobildonna possa essere stato il classico «maggiordomo» sembra troppo semplice e nessuno ascolta le registrazioni delle telefonate: il nome di Winston viene presto scartato. L’inchiesta s’incarta su se stessa, mentre si moltiplicano i titoli scandalistici dei giornali. In autunno, i magistrati non sanno più che pesci prendere e sospendono le indagini.

Mattei protesta: «Voglio sapere chi ha ucciso mia moglie». Per anni le sue richieste cadranno nel vuoto. In mezzo, una serie incredibile di piste sbagliate: legami, poi rivelatisi inesistenti, della coppia con i servizi segreti; ricerche vane di conti correnti all’estero e persino l’ipotesi di un presunto amante cinese della vittima. Peccato che la verità fosse proprio dietro l’angolo.

L’assassino era il «maggiordomo»
Nella confusione delle indagini, un solo punto fermo: la determinazione di Pietro Mattei nel voler trovare chi ha ucciso sua moglie, la donna che amava più della sua vita, la madre dei suoi due figli. A ogni costo, senza badare a spese. Nel 2007 l’imprenditore torna all’attacco: «Voglio sapere chi è stato». E siccome nel frattempo sono state sviluppate nuove tecniche investigative, chiede che si cerchi il dna dell’assassino su tutti i reperti sequestrati all’epoca del delitto nella villa.

Le analisi all’inizio non danno risultati: la Procura tenta di archiviare il caso. Mattei si oppone. Ha ragione a farlo, perché finalmente sul lenzuolo trovato sul corpo della contessa viene individuato un dna. È di Manuel Winston, l’ex domestico che nei primi giorni dell’inchiesta gli investigatori avevano escluso senza motivo dalla lista dei sospetti. Un magistrato recupera le registrazioni delle intercettazioni delle telefonate fatte da Winston subito dopo il delitto e che nessuno, incredibilmente, aveva mai ascoltato. Ce n’è una dove il filippino tratta con un ricettatore la vendita dei gioielli rubati alla contessa. È la prova definitiva. Con amarezza, Mattei commenta: «Il giallo poteva essere risolto subito».

«Sono stato io, perdonatemi»
Intanto, sono passati vent’anni dalla tragedia. Winston nel frattempo si è sposato e ha chiamato sua figlia Alberica, come la sua vittima. Arrestato, il primo aprile del 2011 confessa: «Ho vissuto per tanto tempo con questo peso, perdonatemi». Processualmente, la vicenda si chiude in breve tempo: dichiarata prescritta la rapina, l’ex maggiordomo viene processato per omicidio con il rito abbreviato. Il 9 ottobre del 2012 è stato condannato definitivamente a 16 anni di carcere, grazie anche alle attenuanti generiche concesse poiché al momento del delitto era incensurato.

Dieci anni dopo, grazie a un indulto e alla liberazione anticipata, è già fuori dal carcere. Pietro Mattei non può più protestare: è morto l’anno scorso a gennaio. Suo figlio Manfredi è rammaricato e deluso: «In Italia», dice, «la ricerca della giustizia ricade su chi, come mio padre, ha spalle larghe per poter affrontare i tribunali. L’ingiustizia, invece, è democratica».

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