Questo articolo è pubblicato sul numero 40 di Vanity Fair in edicola fino al 5 ottobre 2021
L’indovino l’aveva detto: «Vi sposerete e sarete felici». Anna, la ragazza cinese con l’accento milanese, e Davide, il ragazzo milanese trapiantato a Shanghai, guardavano perplessi quell’uomo quasi cieco che studiava i loro visi passandoci sopra un pezzetto di legno e intanto vaticinava passato, presente e futuro.
L’idea di andarci non era stata loro, ma della signora Haiyan, la mamma di Anna che, dopo una vita piuttosto avventurosa e complice un’allergia ai pollini (che solo l’inquinatissima aria cinese riusciva, almeno fintanto che la
respirava, a fermare), era tornata in patria per qualche mese e, come ogni suocera cinese che si rispetti, voleva sapere se quel matrimonio «s’aveva da fare» oppure no. Quando poi l’indovino aveva raccontato a Davide una storia sul suo orecchio destro che nessuno poteva sapere, avevano deciso che forse, qualche volta, alla magia ci si può anche credere.
Anna e Davide si erano conosciuti a Canton, una sera in cui Davide aveva voglia di dividere un dessert con qualcuno. «Lo prendo io con te», aveva detto Anna, seduta alla stessa immensa tavolata. La voce era femminile, le vocali aperte decisamente lombarde, ma l’unica ragazza del gruppo – constatava Davide – era cinese. «Ehi, ho parlato io», aveva insistito lei, vedendolo confuso. Nessuno dei due ricorda esattamente che dolce fosse, per convenzione dicono: «Tortino al cioccolato».
Anna è nata in Cina, a Wenzhou, nella provincia di Zhejiang, che, mi spiega, è il posto da cui parte la stragrande maggioranza degli immigrati cinesi in Italia. Un fratello di suo nonno è stato tra i primi a trasferirsi a Milano: è venuto in nave, e quando è arrivato ha scoperto che in città di cinesi ce n’erano solo altri due.
Il ristorante che ha aperto (si chiamava La Pagoda) ha alimentato un flusso migratorio di parenti che partivano sapendo di avere un posto di lavoro più o meno assicurato. Anche i genitori di Anna si sono detti: perché no? E, dando fondo a tutti i loro risparmi, hanno comprato quattro biglietti per un viaggio allucinante dentro container e cassoni di camion. «Io non ricordo niente, era il 1990 e avevo solo quattro anni. Mio fratello era piccolissimo. Però so che quando eravamo quasi arrivati, la mamma è stata fermata e rimandata in Cina».
Così il papà di Anna si ritrova a Milano, illegale, coi figli che non riesce ad accudire perché deve fare solo una cosa: lavorare. «E così il Comune ci ha affidati a una casa-famiglia di suore, a Cusano Milanino». Ci rimangono per quasi cinque anni, fino a quando il nonno materno vende la fabbrica di scarpe di famiglia e regala tutti i soldi alla figlia, affinché possa ritentare il viaggio, riabbracciare i suoi bambini. «Quando mamma è tornata siamo diventati di nuovo una famiglia, ma non è stato facile, soprattutto per mio fratello perché lui, di lei, non ricordava nemmeno la faccia e non avevano una lingua comune: lui parlava solo italiano, lei solo il suo dialetto cinese».
Il resto della storia di questa famiglia assomiglia a quella di tante altre famiglie di immigrati: i doppi e tripli lavori, un po’ di fortuna se va bene, due lingue, due culture, i figli che sentono il peso di quella fatica, e studiano, e sono bravi. Dopo la laurea triennale, Anna decide di andare un anno a Pechino, a imparare il mandarino come si deve. Poco dopo (siamo nel 2011) arriva in Cina anche Davide, mandato ad aprire concessionarie della Ferrari.
Avrebbero potuto incontrarsi a Milano, dove tutti e due sono cresciuti, in uno dei tanti locali per universitari in cui si saranno quasi certamente sfiorati, e invece il destino li mette seduti allo stesso tavolo a Canton. Sono anche colleghi senza sapere di esserlo: il giorno prima Anna era stata assunta alla Ferrari, quello a Canton era il suo primo viaggio di lavoro.
«Finita la trasferta siamo tornati tutti in sede, a Shanghai. E io, come faccio con tutti i nuovi arrivati, cerco di prendermi cura di lei, la invito a pranzo perché non si senta sola. La verità è che lei non ha nessun bisogno della mia compagnia: conosce già tutti e io divento quello che si aggrega ai suoi pranzi con altri», racconta Davide. Ma qualcosa succede e quel Capodanno, allo scoccare della mezzanotte, inizia il 2013 e anche la loro storia d’amore. Per festeggiare San Valentino, lui le regala un weekend a Londra (da Shanghai) durante il quale dormono e basta, causa jet lag. Intanto arriva in Cina mamma Haiyan che, quando scopre che la figlia frequenta un italiano, la invita ogni domenica a Wenzhou per presentarle altri futuri mariti cinesi.
«In Cina, soprattutto fuori dalle grandi città, il matrimonio è un’ossessione. I ragazzi cinesi sono timidi, studiano tantissimo e poi lavorano altrettanto. Non hanno tempo per le relazioni sociali, e allora a farli fidanzare ci pensano i genitori: organizzano tutto, dalle prime uscite ai matrimoni combinati. A Shanghai, in un parco che si chiama People’s Square, si ritrovano decine di mamme e papà che espongono foto e curriculum dei figli. Conosco parecchie persone che si sono sposate così, e i loro matrimoni sono anche felici», racconta Anna.
Che ci è anche uscita con un paio di questi pretendenti, ma non le è piaciuto nessuno. E quando un anno e mezzo dopo Davide le ha chiesto di sposarla, lei gli ha risposto, felice, di sì. I matrimoni, in verità, sono stati due: uno a Milano «con 170 invitati, di cui 110 cinesi e quasi nessuno lo avevo mai visto prima», dice Davide, e uno a Wenzhou, che lui definisce «un’esperienza abbastanza forte» e racconta ridendo di un gazebo decorato con pitoni viola e di un video del «sì»montato con musica techno – cinese, ovviamente.
«Se tra noi c’è stata qualche frizione culturale io non me ne sono mai accorto, perché dieci anni di Cina hanno cancellato ogni eventuale differenza, e la stima che ho per quello che ha fatto il papà di Anna, per la sua fatica, il suo non essersi mai arreso, né mai lamentato, mi fanno amare attraverso di lui tutto il suo popolo. Quel che diceva mia nonna, quel “mogli e buoi dei paesi tuoi”, non ha più nessun senso».
Alla fine del 2019 Anna e Davide, spinti da un’occasione di lavoro, sono tornati a Milano, un istante prima che cominciasse la pandemia. «Eravamo stanchi dell’inquinamento, dei filtri per ogni cosa, di vedere il sole solo per poche settimane l’anno. E poi volevamo un figlio. Che, ci avevano detto, non sarebbe mai arrivato in modo naturale». E invece è successo quando nessuno se l’aspettava più, e adesso Zeno ha 15 mesi ed è la prova tangibile che i mondi si possono fondere. Anna gli parla solo in cinese, Davide in italiano e qualche volta in inglese.
«Ai miei un po’ dispiace che la sua lingua materna sarà diversa dalla loro», dice Davide, «gli sembra che lo faccia meno italiano. Ma sono di un’altra generazione, fanno fatica a vedere che quella che Anna gli sta dando è una risorsa per il suo futuro, una risorsa che a me manca: ho provato a imparare il mandarino, ma non ci sono mai riuscito». Quanto allo stile educativo, Anna sente che il suo pezzo cinese la fa essere un pochino più esigente, un filo più pressante. «Un po’ tiger mom». E così, prima del nido, ha mandato Zeno a socializzare ai «play group», e si è informata: se in settimana farà l’asilo italiano, nel weekend potrà fare quello cinese. Quanto alle scuole, ne vorrebbe una con il programma italiano, ma in inglese. Ma esiste?, chiedo. «La sto cercando».
Mentre Davide scuote la testa e a bassa voce dice: «Quindici mesi… L’altro giorno ha detto “papà”».
N.B. L’indovino ha detto che i figli saranno due, maschi.
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