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Cannabis, l'erba buona
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Questo articolo è pubblicato sul numero 39 di Vanity Fair in edicola fino al 28 settembre 2021

È difficile raccontare il misto di euforia, speranza, sollievo che si vive in questo momento nel mondo che si batte per la legalizzazione della cannabis. Sembra di vivere in quella famosa frase di Lenin: ci sono decenni in cui non succede nulla e settimane in cui succedono decenni. Sta andando esattamente così con il referendum proposto il 12 settembre, che chiede di eliminare il reato di coltivazione, rimuovere le pene detentive per qualsiasi condotta legata alla sostanza e cancellare la sanzione amministrativa del ritiro della patente. Il conteggio febbrile delle firme è schizzato in alto appena la raccolta è apparsa in Rete: in 4 giorni 400 mila, una corsa verso il traguardo delle 500 mila che nemmeno la 4×100 italiana a Tokyo. Dopo la storia Instagram di Fedez ci sono stati picchi di quattro firme al secondo, una velocità di crociera di 7 mila firme orarie: è questo il passo dell’Italia che prende di nuovo la parola. Lo avevamo visto già col referendum sull’eutanasia o lungo la strada ancora impervia del Ddl Zan. Nei comitati promotori devono aver urlato «Si può fare!», come Gene Wilder in Frankenstein Junior.

Antonella Soldo è coordinatrice di Meglio legale, l’organizzazione nata durante il primo lockdown per fare rete tra le realtà antiproibizioniste in Italia e che ha avuto un ruolo centrale in questa campagna, accanto all’Associazione Luca Coscioni. In primavera, Meglio legale aveva organizzato la disobbedienza civile sui balconi: una piantina coltivata alla luce del sole per ogni attivista o simpatizzante. Era una protesta simbolica, non ci hanno messo molto però ad arrivare alla sostanza dei numeri e della politica. Questo momento storico Antonella lo racconta così: «Abbiamo aggirato i grandi partiti, abbiamo retto al disinteresse delle Tv, abbiamo fatto tutto senza lobby di investimento. C’è una fame di partecipazione incredibile, questo tema era stato espulso dalle agende, ma riguarda milioni di consumatori, pazienti, ragazzini che oggi sono costretti a entrare in contatto con la criminalità organizzata e che possono vedersi la vita rovinata da una retata».

Tra le tante persone che stanno vivendo settimane speciali c’è Ornella Muti, che ha fatto della legalizzazione una battaglia personale dopo aver visto le sofferenze di sua madre, malata oncologica con prescrizione per la cannabis terapeutica, vedersi negare questo diritto a causa della mancanza di accesso e del tabù che ancora c’è in Italia su questa sostanza. «È stato un calvario. Non avevamo informazioni, se fosse andata diversamente mia mamma avrebbe potuto avere una vecchiaia più serena. Ma come lei sono tante le persone malate di cancro che si trovano in questa situazione». Oggi Muti, insieme alla figlia Naike Rivelli, è consumatrice (la usa contro pressione bassa e insonnia) e attivista della cannabis, con l’obiettivo di diventare anche imprenditrice di settore. Con l’Ornella Muti Hemp Club ha creato un’associazione per aiutare chi ha difficoltà di accesso, offrendo informazioni sull’uso e l’accesso alla cannabis e prodotti di ogni genere: terapeutici, cosmetici, alimentari. «Ma siamo pronti, nella speranza che diventi presto totalmente legale, a diventare gli Snoop Dogg italiani: distributori di cannabis legale, con e senza Thc, in tutta Europa».

In Italia se si scegliesse la strada del monopolio, come per le sigarette, lo Stato incasserebbe benefici fiscali tra i 4 e i 5 miliardi di euro: secondo l’Istat sono circa sei milioni i consumatori, di ogni classe sociale, provenienza geografica, stile di vita. Tra loro c’è una minoranza importante: quelli che fanno uso di cannabis terapeutica e che – come la madre di Ornella Muti – hanno questo diritto riconosciuto per legge, eppure lo vedono costantemente ostacolato dallo stigma che coinvolge tutti. Tra loro c’è Mara Ribera, cinquant’anni e un corpo complicato da gestire: soffre di dolore cronico da quando ne aveva ventitré, per una malattia rara chiamata cistite batterica e per una cefalea primaria, non curabile, arrivata tre anni dopo. Dopo decenni, un anno fa Mara ha scoperto l’unica sostanza che le dia un sollievo vero, affidabile e costante senza gli effetti collaterali devastanti degli oppiacei: la cannabis, appunto, in formato di gocce disciolte in olio d’oliva. Mara vive a Milano, non ha dovuto coltivarsela da sé come Walter De Benedetto e Cristian Filippo, pazienti che stanno anche affrontando le conseguenze legali grottesche delle leggi più repressive d’Europa. Conosce le pochissime farmacie di Milano che possono procurarle le gocce, che dobbiamo importare perché l’unica produzione terapeutica italiana, quella dello stabilimento di Firenze, non soddisfa la domanda. Però Mara vive ancora nella costante paura che il dolore torni, perché spesso le farmacie rimangono senza prodotto. «Mi spiace, non ce n’è», dicono, e lei rimane in attesa che il dolore invalidante torni una mattina (la cefalea arriva all’alba) perché lo Stato ha deciso di ignorare il suo diritto alla cura a causa di un tabù culturale. «Anche i medici che me la prescrivono vengono trattati come spacciatori, continuamente sorvegliati. Per me il referendum è un primo passo, un inizio»

Cathy La Torre, avvocata dei diritti, è parte della campagna, come esperta di diritto, attivista e cittadina. Dice di non stupirsi per l’esplosione popolare del referendum, che insieme a quello sull’eutanasia potrebbe essere una detonazione dell’ipocrisia nazionale. «Mi ricorda un’altra grande stagione, quella dei referendum degli anni ’70 sul divorzio e l’aborto, uno di quei passaggi epocali che cambiano la storia, cosa che succede quando le persone finalmente possono prendere la parola. I due quesiti viaggiano insieme, e vorrei che presto fossero accompagnati da altri due temi che oggi la politica ignora: le adozioni e una legge sulla cittadinanza». La Torre è consumatrice di cannabis, ha smesso di fumare e la assume solo per fini terapeutici. «Oggi c’è ancora gente in Italia che prova vergogna mortale all’idea di dire di essersi fumata una canna. Il referendum serve a porre il tema nell’agenda, a cambiare la narrazione e la coscienza con cui i consumatori si presentano alla società». Senza più vergogna, appunto. Questa del referendum è anche la storia di tante realtà antiproibizioniste italiane che finalmente hanno deciso di unirsi, ognuna con il proprio angolo di visione e le proprie competenze, invece di lavorare separatamente. Proprio per la sua eterogeneità di fini e scopi, il mondo della cannabis legale si era sfilacciato nel corso degli anni. Oggi il lavoro di squadra ha portato risultati che sembravano impossibili: un testo base in commissione Giustizia alla Camera e soprattutto questa grande onda digitale di firme: comunque vada con il necessario vaglio della Corte Costituzionale, sarà molto più difficile mettere questa storia sotto un tappeto. Dice Antonella Soldo: «Il risultato ci è quasi sfuggito di mano per quanto è stato potente e veloce. Ora la politica è costretta ad avere una vera conversazione su come governare il fenomeno. Partendo da una certezza, un dato di fatto: leggi repressive e proibizionismo non hanno mai funzionato. Serve altro».

Se c’è una persona che può fare un parallelo con la grande stagione dei diritti civili degli anni ’70 è la senatrice Emma Bonino, che ha combattuto ognuna di quelle battaglie. «Oggi come allora sono temi che il mondo politico non ha voluto affrontare». Quella di divorzio, aborto, obiezione di coscienza, diritto di famiglia fu una lunga stagione di lotte, iniziata nel decennio precedente. «Anche allora c’era un parlamento che non voleva vedere come la società fosse già cambiata. Le due stagioni hanno questo in comune, sono la società che decide di farsi vedere, attraverso i referendum». Nonostante l’euforia di queste settimane, la strada è ancora lunga e complicata, e c’è un solo augurio che Bonino fa alla generazione attuale di attivisti che provano a cambiare di nuovo l’Italia: «Una persistenza e una cocciutaggine così forti da diventare patrimonio di tutti».

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