Questo articolo è pubblicato sul numero 36 di Vanity Fair in edicola fino al 7 settembre 2021
Si parla molto di Afghanistan, ma si parla poco del suo vicino di casa a sud, il Pakistan, un gigante con una popolazione di 180 milioni di persone e che è anche dotato di un arsenale nucleare. È uno sbaglio non parlare di Pakistan proprio adesso, perché i talebani oggi non riuscirebbero a spadroneggiare a Kabul e non sarebbero riusciti a conquistare mezzo Afghanistan nel giro di una sola settimana se non fossero stati aiutati dai servizi segreti del Pakistan.
Fa un po’ ridere scrivere questa frase, perché il mondo è pieno di complottisti che vedono lo zampino dei servizi segreti ovunque. Ma nel caso dell’intelligence del Pakistan e dei talebani è tutto sciaguratamente vero. E non è una relazione cominciata ieri, va avanti da decenni. Nel 2010 uscì un rapporto di un centro di studi politici molto quotato, la Kennedy School dell’Università di Harvard, che definiva i rapporti tra i servizi militari pakistani (che hanno la sigla Isi) e i talebani «chiari come il sole», come diceva il titolo. Gli autori avevano intervistato molti comandanti talebani che facevano avanti e indietro tra Pakistan e Afghanistan, e che confermavano l’appoggio e le istruzioni ricevuti dagli uomini dell’intelligence. E questo è soltanto un fatto, si potrebbe andare avanti per pagine intere.
Un altro fatto? I due organi supremi dei talebani, i due centri di potere dell’intero movimento, sono il Consiglio di Quetta e il Consiglio di Peshawar. Entrambe sono città pakistane vicine al confine con l’Afghanistan, dove i capi dei talebani si riuniscono per prendere le decisioni. Nei due luoghi, è un via vai continuo.
Dall’Afghanistan arrivano i talebani feriti per farsi curare e dal Pakistan partono i talebani che si erano presi una pausa dai combattimenti. Inutile dire che in queste settimane, dopo che i talebani hanno trionfato a Kabul, c’era molta soddisfazione tra i vicini a sud – ma con discrezione.
A questo punto viene da chiedersi: perché il Pakistan si comporta così? La risposta è che il Paese è impegnato da molti anni in una guerra fredda con un’altra potenza nucleare asiatica, l’India, l’immenso vicino a sud. I militari del Pakistan temono che un governo occidentalizzato in Afghanistan sarebbe molto amico dell’India e quindi si verrebbe a creare un «effetto panino» molto poco desiderabile: gli indiani a sud, gli afghani a nord, in mezzo i pakistani stretti tra due nemici. Questa prospettiva li fa innervosire, quindi preferiscono di gran lunga i talebani al potere, che sono estremisti e rozzi ma non sarebbero mai amici dell’India, perché in Pakistan la maggioranza della popolazione è musulmana e in India no.
Inoltre c’è la famosa questione della profondità strategica: il Pakistan è un Paese ampio, ma teme che, se l’India decidesse di invadere, le divisioni nemiche arriverebbero in fretta alle grandi città (sempre che non si decida prima di risolvere la questione a colpi di armi atomiche). In tal caso, l’esercito pakistano avrebbe l’opportunità di usare il territorio afghano come un’estensione del proprio per resistere, riorganizzarsi e lanciare un contrattacco. È la profondità strategica, appunto. Ma per tenere in vita questa strategia di sopravvivenza c’è bisogno che in Afghanistan ci sia un governo amico, e quindi: i talebani.
Tutto questo groviglio di relazioni è anche aiutato dal fatto che nella regione di confine fra i due Paesi è difficile distinguere chi è afghano e chi è pakistano, la gente preferisce identificarsi con l’etnia pashtun e i suoi valori. E tra questi valori c’è anche che si risponde agli attacchi tutti assieme. E quindi la guerra dei talebani era la guerra un po’ di tutti – qui un pashtunologo tirerebbe fuori parecchie eccezioni, ma l’importante è capirsi.
Arriva un’altra domanda inevitabile: ma è possibile che il Pakistan, che riceve miliardi di dollari di aiuti dagli Stati Uniti e intrattiene rapporti cordiali con tutti i Paesi occidentali, appoggi in modo così sfacciato i talebani, che per vent’anni hanno sparato e hanno piazzato bombe contro i soldati americani e della Nato in Afghanistan? Per spiegare questa doppiezza sono indispensabili due citazioni. Una è di Richard Armitage, che nel settembre 2001 era vice segretario di Stato americano. In pratica, era il vice della diplomazia americana nei giorni dopo gli attacchi terroristici di al Qaida a New York e Washington. Armitage telefonò al presidente del Pakistan, che allora era il generale Pervez Musharraf, e usò parole per nulla diplomatiche: «Se non collaborate nella guerra al terrorismo in Afghanistan preparatevi a essere bombardati. Vi facciamo tornare all’età della pietra a suon di bombe». Il Pakistan aveva sperato in quegli anni che il suo affair con i talebani restasse una questione locale che non avrebbe attirato l’attenzione di nessuno, e invece dopo gli attentati si era trovato proiettato sotto le luci più forti della scena internazionale. Adesso dovete scegliere, era il messaggio: o con noi oppure con i mostri talebani (anche all’epoca l’appoggio del Pakistan ai guerriglieri afghani era chiaro: l’aeroporto di Kabul funzionava soltanto grazie all’aiuto del governo di Islamabad). A malincuore scelsero la prima opzione, almeno a parole, ma nei fatti non abbandonarono mai la seconda.
La seconda citazione è di Ryan Crocker, ambasciatore americano in Pakistan in quegli anni tormentati. I pakistani gli dissero: «Siamo contenti che siete tornati in questa regione e di tutti i soldi che state facendo circolare, e siamo felici di lavorare con voi contro al Qaida, ma se pensate che volteremo le spalle ai talebani e li tratteremo come nemici mortali allora siete pazzi», ricorda Crocker. «Alla fine, voi tornerete a casa e noi resteremo qui. Questo è quello che fate sempre. Così, state pur sicuri che sappiamo su chi scommettere». Capito? I pakistani conoscono il pollaio. E in tutti questi anni non hanno mai smesso di manipolare e guidare la situazione secondo le loro convenienze. Quando nel 2018 l’amministrazione Trump ebbe bisogno di un leader talebano per negoziare quello che poi sarebbe diventato, nel febbraio 2020, l’accordo di Doha, il Pakistan fece uscire di cella il mullah Baradar. Lo aveva catturato nel 2010 e lo tirò fuori all’occorrenza perché ormai a questo punto si è capito: i talebani sono degli asset per i servizi di Islamabad, da usare come viene meglio. A giudicare da quello che è successo vent’anni dopo, hanno vinto la scommessa e i loro protetti sono diventati, o meglio sono tornati a essere, i padroni di Kabul.
DANIELE RAINERI, inviato del Foglio, specializzato in aree di crisi, ha lavorato in Afghanistan, Iraq, Siria e in altri Paesi.
Foto sopra: I passeggeri di un autobus bloccato nel traffico di Karachi, capitale economica e finanziaria del Pakistan.
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