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Gli allievi di Umile Trausi
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Gli allievi di Umile Trausi

Questo articolo è pubblicato sul numero 28-29 di Vanity Fair in edicola fino al 20 luglio 2021

«Troppo liquida, aggiungi un po’ di farina e togli quei grumi, non deve restarne neanche uno…». Tra ostensori e paramenti liturgici, Umile Trausi, artigiano e commerciante storico di Cosenza, negozio a un passo dalla cattedrale di Santa Maria Assunta, guida i gesti dei ragazzi con voce sussurrata. Di mescolare acqua e farina si tratta, ma la ricetta è davvero speciale. Quella delle ostie, da preparare e poi tostare in uno stampo elettrico che consente di realizzarne una trentina per volta. E speciali sono anche gli allievi di Umile: Sadia Diaby, Madi Minougouy e Adama Traore, tre giovani migranti di fede musulmana alle prese con il Corpo di Cristo. Arrivati in Italia sui barconi quando erano minorenni, oggi hanno costituito una cooperativa che, oltre a produrre pasta artigianale, si occuperà proprio di realizzare e commercializzare ostie. «Sì, sono musulmano, ma non ho nessun problema a fare questo lavoro», racconta Madi, 20 anni: «Anzi, lo vivo come un’occasione per ringraziare la religione del vostro Paese, il Paese che ci ha accolto». Non ci sono frasi fatte né imbeccate nella bocca di questo ragazzo atletico che, nel 2017, ha lasciato la famiglia e la sua vita da studente di Economia nella città di Abidjan, capitale economica della Costa d’Avorio, e con un paio di amici si è diretto verso la Libia per fare il grande salto verso l’Europa. «Non eravamo poveri e neanche ricchi. Sono partito perché avevo voglia di libertà e di nuove opportunità. Il viaggio sul barcone è andato liscio, siamo sbarcati a Catania, ma in Libia ho avuto paura. Brutti ricordi, voglio cancellarli. Nessuno quando parte sa che cosa lo aspetta in Libia». Adesso, dopo il passaggio da tre centri di accoglienza siciliani, dopo aver frequentato un corso per addetto alla produzione di pasta fresca artigianale alla Casa di Ismaele di Rogliano, a un’ora da Cosenza, Madi si prepara a una nuova vita.

«Il supermercato dove ho fatto un tirocinio mi ha proposto l’assunzione stabile, ma io sono concentratissimo sul progetto del pastificio e delle ostie. Se sono venuto in Italia è per fare qualcosa in cui credo, per realizzarmi come imprenditore».
Idee chiare, in questa Calabria che supera il 53 per cento di disoccupazione giovanile e che rincorre il reddito di cittadinanza. Da questa determinazione è nata la cooperativa Sam, tre lettere che sono le iniziali di Madi e dei suoi compagni di avventura, Sadia e Adama, entrambi senegalesi, anche loro musulmani, tutti entusiasti di riuscire a tenere in piedi la cooperativa riportando alla luce la tradizione delle ostie artigianali, forti di una piccola indagine di mercato secondo la quale, nella novanta parrocchie della diocesi di Cosenza, si fanno diecimila comunioni al giorno. «Io le ho prodotte qui a Cosenza fino al 1992», spiega l’artigiano, Umile Trausi, nel retrobottega fitto di pacchi di immaginette sacre. «Con mia moglie lavoravamo anche di notte, un mestolo dopo l’altro, per soddisfare la richiesta. Poi ci siamo stancati, sono arrivate le ostie industriali, dove da una parte metti il sacco di farina e dall’altra ti vengono fuori le buste già chiuse. Arrivano dalla Polonia, ma sono un’altra cosa rispetto a quelle artigianali. Oggi sento che le diocesi sono interessate ad alzare la qualità di quelli che sono i principali “beni di consumo”, cera, vino e appunto ostie, anche se si tratta di spendere qualche centesimo in più».

Un mercato appetibile, come spiega Salvatore Brullo, direttore generale della cooperativa siciliana Fo.co, capofila del progetto presentato alla Fondazione con il Sud insieme con l’Afn (Associazione famiglie nuove) e con la Ong Amu (Azione per un mondo unito): «C’è una grande concorrenza sulle ostie, ma anche una grande richiesta. Un tempo questa produzione era gestita da una congregazione di suore nata proprio per questo scopo, e in ogni diocesi c’era un laboratorio. Poi, con la crisi delle vocazioni, il mercato è cambiato. È arrivata la grande industria che le esporta in tutto il mondo, ma c’è spazio per un prodotto di nicchia e di qualità, fatto con farine artigianali e con il valore aggiunto di tre ragazzi musulmani disponibili a realizzare il simbolo della religione cristiana. Partiamo già forti di un collegamento stretto con la diocesi di Cosenza che ci permette la distribuzione di ostie in tutto il suo territorio». Il progetto ha finanziato il capitale sociale della cooperativa (1.500 euro) e pagherà per un anno il 50 per cento dello stipendio dei tre ragazzi, che saranno a breve contrattualizzati, e il 50 per cento dei costi di produzione. «Poi speriamo che la cooperativa si mantenga con gli utili», aggiunge Brullo, convinto che bisogna alzare l’asticella rispetto alle politiche di integrazione. Non a caso il progetto si chiama «Fare sistema oltre l’accoglienza» e guarda dritto al mondo dell’impresa per emancipare i migranti: non più destinatari di assistenza, ma contribuenti dello Stato. Per questo il progetto è piaciuto alla Fondazione con il Sud, l’ente non profit nato quindici anni fa dall’alleanza tra fondazioni di origine bancaria e il mondo del Terzo settore e del volontariato. «La storia di questi ragazzi è la storia di una comunità capace di immaginare il proprio futuro», dice il presidente Carlo Borgomeo, «un’esperienza positiva perché offre delle opportunità e prevede un processo di accompagnamento verso l’autonomia dei giovani».

È il contesto che spiega come, proprio in quel Sud che fatica più del Nord a fare impresa, abbiano preso forma diversi progetti che vedono protagonisti migranti capaci di costruirsi un futuro con le proprie mani, dando lavoro a sé e agli altri. A Palermo sono nate Kirmal, start up multiculturale di “catering narrativo”, e Giocherenda, impresa che produce giochi da tavolo ispirati all’immaginario e ai colori dell’Africa, mentre a Catania è sorta Beteyà, specializzata nella produzione di capi e accessori di abbigliamento. Adesso, dall’altra parte dello Stretto, è la volta di Sadia, Mati e Adama, con la loro pasta e le loro ostie, le loro speranze e le loro ferite. Sadia, 21 anni, le porta sul corpo, cicatrici sulle gambe e sulle braccia.

«Sono partito per la Libia grazie i soldi che una mia zia mi mandava dalla Francia per frequentare la scuola: le dicevo che andavo, in realtà avevo smesso. Mia madre è morta a 38 anni, investita mentre andava al supermercato, mio padre si è risposato, la mia sorella più piccola è andata a vivere con mia nonna perché non poteva più restare a casa. In Libia mi hanno messo in prigione per dieci mesi, mi hanno torturato. Pensavo che non ne sarei uscito vivo, quando un giorno è arrivato un amico di mio padre, un uomo ricco, a prendere un altro prigioniero: ha pagato per farlo uscire, lì funziona così. Mi ha riconosciuto, mi ha detto: aspetta che tra poco vengo a prendere an-
che te. Non ci credevo, ma è venuto davvero. Mi ha dato vestiti puliti, mi ha ospitato per due mesi fino a quando mi sono rimesso in piedi e ho preso la barca. Non gli sarò mai abbastanza grato. Mi ha detto: l’ho fatto per tua madre, era una donna gentilissima. E così penso che mi ha salvato mia madre. Spero un giorno di far venire in Italia anche mia sorella. Ho tanta voglia di lavorare, so che ce la farò. Speriamo che con le ostie ci aiuti anche il vostro Dio». Gli sorride il terzo dei ragazzi, Adama, anche lui 20 anni. «Sono partito nel 2017 perché volevo conoscere il mondo, sono andato in Algeria, poi in Libia per raggiungere Sadia, con lui sono arrivato qui in Italia, sullo stesso barcone. Paura? Un poco, ma la vita è una sola».

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