Nella sua vita, Ludovico Bessegato dice che c’entrano molto il caso e le coincidenze che hanno aperto strade inattese, ma quando gli si chiede se crede davvero nel destino, lui ride: «Sono uno storyteller, mi piace che i puntini si uniscano sempre, anche quando la storia che racconto è la mia». Classe 1983, milanesissimo («Il mio trisnonno ha scolpito il portone del Duomo»), oggi Ludovico è di fatto lo storyteller che tutti vogliono dopo il successo deflagrante di Skam Italia, di cui è stato showrunner, ha cioè scritto e diretto e curato tutte le fasi della produzione della serie. Con le sue storie di liceali romani, Skam Italia, adattamento locale del primogenito Skam nato in Norvegia, ha superato i confini nazionali, a un certo punto è diventata la serie più «divorata» al mondo per binge watching secondo Tv Time e per molti è il miglior remake dell’originale norvegese. Oggetto di culto che sfiora la monomania, Skam Italia con le sue quattro stagioni ha colpito critici e pubblico per la freschezza del racconto, uno stile crudo da cinema indie unito a dialoghi che per una volta suonano veri, in bocca ad adolescenti del tutto credibili. Di questa rivoluzione della narrativa teen in tv il propulsore è stato Ludovico Bessegato, che però si schermisce: «È andato tutto bene per una serie di fattori, tra i quali la grande libertà che mi hanno dato».
Ha sempre voluto fare questo lavoro?
«Mio padre è un attore teatrale, mia madre una storica dell’arte e accademica. Non avevo alcuna velleità artistica, anzi, mi ero iscritto a Giurisprudenza con l’obiettivo di diventare magistrato o politico. Poi la prima coincidenza: il mio primo giorno di università mi chiama un amico di amici di famiglia, che aveva confuso me con un altro figlio di amici. Stava cercando un assistente per scrivere un testo teatrale con il regista Renato Sarti. Era un adattamento teatrale del libro di Giovanni Maria Bellu, I fantasmi di Portopalo, sulla vicenda del naufragio dei migranti del 1996 (in cui persero la vita 283 persone, ndr). Ho detto: vengo io. E da lì ho cominciato a lavorare nel teatro. Poi un altro caso del destino».
Racconti.
«Dopo il diploma alla Scuola civica di Milano, vengo a sapere che una casa di produzione romana, la Magnolia, diventata poi Cross Productions, vuole adattare I fantasmi di Portopalo per la tv. Mi propongo al presidente Rosario Rinaldo, mi trasferisco a Roma. Poi la serie viene rimandata ma io intanto sono lì e mi metto a lavorare nel reparto editoriale. Dopo due anni divento produttore creativo. Tra i miei progetti ci sono Rocco Schiavone e poi Il cacciatore».
Che cosa fa che molti suoi colleghi non fanno?
«Molte persone che fanno il mio lavoro puntano all’autorappresentazione. Rispetto questa scelta, ma a me piace girare la camera del selfie e guardare gli altri. Forse è per pudore, timidezza, ma preferisco raccontare personaggi lontani da me. Il che richiede una buona dose di empatia».
L’empatia è l’antidoto al racconto ombelicale?
«Il tema è complicato. Alcuni pensano che non si possa che raccontare di sé, altrimenti si rischia il paternalismo. Pur avendo una vita divertente, io non ho però la presunzione che interessi agli altri. L’empatia mi ha aiutato a capire che una serie come Skam parte dall’ascolto, dalle testimonianze. Chi scrive ha forse l’onere di documentarsi molto, prima di raccontare, anche perché oggi con le piattaforme parli a un pubblico potenzialmente globale».
Molti colleghi raccontano sé stessi. A me invece piace di più occuparmi di personaggi lontani da me. Il che richiede una buona dose di empatia e di documentazione
Ha fatto molte interviste ad adolescenti prima di scrivere Skam. Che cosa ha scoperto?
«Centinaia di interviste, sì. Ho sfatato alcuni luoghi comuni, per esempio che i ragazzini stanno sempre sui social: ci stiamo più noi. Ma più che altro indagavo sulle cose pratiche delle loro vite: dove vanno dopo la scuola, cosa guardano, cosa ascoltano, come si scrivono tra di loro, cosa cucinano. Cerco sempre di far sì che i personaggi si definiscano attraverso i fatti, non con le parole, che spesso usiamo per mentire. Martino (protagonista della seconda stagione, ndr) non dice: sono gay; dice: mi piace Niccolò».
Si aspettava un successo simile?
«No, non di queste proporzioni. Mi ha cambiato la vita».
In che modo?
«Sono sempre stato dietro le quinte, dall’anno scorso sono più esposto e sono stato investito da proposte e complimenti forse anche un po’ eccessivi. Adesso sto lavorando a un progetto totalmente mio: aspettate di vedere quello. Sento che devo essere confermato».
È diventato un idolo teen.
«Più gli attori di me. Questo tipo di rapporto con i fan mi mette a disagio, io sono di un’altra generazione e sono timido. Tanti, per esempio, ripostano i complimenti ricevuti: io la trovo una cosa da sboroni».
Con Skam ha rivoluzionato la rappresentazione dell’adolescenza. È una strada senza ritorno per tutti?
«Pensavo che tutti ne sarebbero stati influenzati, ma così non è stato. In realtà nessuno ha provato a restituire lo stesso approccio real time, sporco, trasgressivo; resiste invece il vecchio modello teen. È una scelta».
La quinta stagione di Skam si farà?
«Non posso dire molto, noto che c’è un interesse nel farlo, è un tema di cui si parla».
Foto di Riccardo Ghilardi