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SanPa, Fabio Cantelli: «Chiudendomi in uno stanzino mi ha ridato la libertà»

Ex ospite e portavoce di San Patrignano, nonché voce illuminante della docuserie SanPa di Netflix, Cantelli ci ha raccontato la sua storia

«A diciott’anni iniziai subito con l’eroina in vena. Due anni dopo ero rinchiuso a San Vittore per dei furti e un magistrato mi disse: ti faccio uscire subito se accetti un percorso di recupero».

A raccontarci la sua storia, come se porgesse la sua lettera di presentazione, è Fabio Cantelli, ex ospite e portavoce di San Patrignano nonché voce illuminante della docuserie SanPa di Netflix.

«Arrivai a Le Patriarche, una comunità con sede in Francia e diverse filiali in Europa. Non fu affatto una libera scelta, infatti dopo sette mesi scappai. Feci anche un tentativo con il CeIS di Don Mario Picchi ma il filtro all’ingresso, con cui testavano la motivazione dei tossicodipendenti, mi fece cambiare strada e, nell’83, arrivai a San Patrignano, dove ti prendevano così com’eri». La comunità di recupero fondata da Vincenzo Muccioli, adagiata sulle colline riminesi, per circa dieci anni è stata la sua casa, dove ha intrapreso un percorso accidentato, disseminato di fughe e ritorni.

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«Nei primi sei mesi scappai 5-6 volte, ero un osso duro, ma Vincenzo era sempre pronto a riaccogliermi» così introduce l’episodio che ha segnato il suo cambiamento. «Una volta scappai a Milano, era un periodo autodistruttivo – spiega  mi facevo sia di eroina che di cocaina in vena. Allora Vincenzo mandò due marcantoni a recuperarmi: mi rinchiusero in uno stanzino per diciotto giorni. Raggiunsi l’acme dell’angoscia, tentai il suicidio, ma poi scaturì un inatteso senso di pace, mi arresi ed ebbi una sorta di sdoppiamento della coscienza a tal punto da vedermi da fuori e pensare “com’è disperato questo esserino raggomitolato su una brandina”». Seppur con maniere forti, quell’esperienza fu decisiva, ruppe il rapporto solidale con la droga e rappresentò il principio del processo che lo portò alla liberazione dalla dipendenza.

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«Concetti come bene e male, in situazioni così estreme, non possono essere usati in modo assoluto. Educare è come far volare un aquilone, se tiri troppo o troppo poco la corda, l’aquilone cade. E questo era il metodo di Vincenzo che creava un rapporto diretto con ognuno di noi e sapeva quando era il momento di tirare la briglia» spiegando che quella che viene definita violenza non era un metodo, bensì un’extrema ratio applicata da Muccioli dinanzi a situazioni limite.

Tutt’altra storia rispetto alle vessazioni e intimidazioni esercitate da alcuni responsabili di settori scoperte fu negli anni ’90.

«Apprendere dell’omicidio di Roberto (Maranzano, massacrato nella porcilaia e ritrovato in una discarica vicino Napoli ndr) fu sconvolgente. Vincenzo, inizialmente, disse di non saperne nulla, qualche giorno dopo ammise di averlo appreso dopo mesi. Ma mi parve inverosimile in quanto lui era a conoscenza di tutto ciò che accadeva nella comunità. Proprio in quell’occasione, che gettò ombre pesanti su SanPa, iniziai a sentirmi fuori posto nel ruolo di portavoce» racconta ricordando che sperava tanto che il caso scoppiato servisse a riflettere sugli errori, a mettersi in discussione per avviare un percorso di cambiamento. Invece, finito il processo, nessuno dei collaboratori più stretti di Muccioli sentì l’esigenza di guardarsi dentro, tranne lui che nel ’95, due giorni prima della morte del patron di SanPa, decise di lasciare la comunità.

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«Arrivai a Torino per amore, senza una lira perché in comunità non avevo voluto uno stipendio per non contrarre debiti morali ed economici ed esser libero di raccontare tutto il bene ma anche ciò che mi aveva fatto soffrire» prosegue descrivendo l’approdo al Gruppo Abele, accolto da Don Ciotti, dove tuttora applica le sue attitudini sviluppate grazie a Muccioli, sempre attento a far apprendere un lavoro a tutti per costruirsi un mondo alternativo alla droga.

Con il senno di poi e la maturità raggiunta, Cantelli, oggi 58enne, non gli addossa nessuna colpa, anzi sottolinea che grazie a lui ha potuto studiare filosofia a Bologna. Non recrimina neanche la comunicazione della sua sieropositività avvenuta soltanto quattro anni dopo il test camuffato da esami di routine.

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«Ho ricostruito il fatto a posteriori – spiega  nell’85 non c’erano ancora terapie per la sieropositività, per tale motivo Vincenzo decise di comunicarci i risultati soltanto quando avrebbe reputato che fossimo pronti. A quei tempi, in effetti, suonava un po’ come una condanna a morte».

Il limite di Muccioli, però, secondo il suo ex portavoce e ghostwriter, fu quello di non aver ritenuto la tossicodipendenza un’esperienza con ragioni profonde. Credeva si trattasse di una maschera da distruggere affinché emergesse quella che lui riteneva la vera identità, fornita dalla comunità.

«Ma questa identità posticcia non coincideva con la mia. Il mio percorso di autoanalisi non era preso in considerazione lì dentro e così, con le mie consapevolezze e non poche difficoltà, intrapresi il mio processo di liberazione che prosegue per tutta la vita e corrisponde con il processo di costruzione di se stessi» continua con voce sottile quanto resistente Cantelli, divenuto la figura illuminante della docuserie SanPa quasi per caso, grazie al suo libro ritrovato in biblioteca da uno degli autori, Carlo Gabardini.

Oltre al lavoro svolto magistralmente da professionisti seri e appassionati, secondo Cantelli, il successo del documentario è racchiuso nei temi universali, amore, vita, morte, potere, che scandiscono la vicenda di San Patrignano, come se fosse una tragedia di Shakespeare.

«Nel 2000 tornai in visita, sollecitato da un mio caro amico, previa “estrema concessione” della moglie di Vincenzo, nonostante mi definisse ancora un eretico. Ma mi è bastato mettere piede lì dentro per capire che era cambiato tutto. Percepii che quella perfezione estetica corrispondeva a una perdita di animo. Ciò non significa che San Patrignano non avesse più fatto cose belle e importanticonclude ma non era più la comunità in cui avevo vissuto, amato, sofferto. In cui, in uno stanzino, scoprii il germe della cura di me stesso».

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