Mia madre e sua sorella sono partite per l’Ucraina in cerca delle loro radici. Mia madre ha settant’anni. Sua sorella, settantasei. Mio nonno, buonanima, è nato in un paesino dell’Ucraina più di centoventi anni fa. Gli ebrei che vivevano in quell’area sono stati sterminati, tutti, fino all’ultimo. Il paese è talmente piccolo che non compare nemmeno in Google maps. Si poteva prevedere che non trovassero niente. Ma, nella nostra famiglia, un qualche gene da sognatori si trasmette di generazione in generazione.
Hanno ingaggiato un autista che le portasse da Kiev, passando per Odessa, fino al paese. Mi hanno mandato una fotografia insieme a Igor, l’autista, vicino alla macchina: erano in partenza. Confesso che, fin dal primo momento, mi ha fatto una cattiva impressione. Troppa fronte. Ma cosa potevo dire?
Il secondo giorno di viaggio, l’auto si è bloccata. Mi hanno mandato una foto insieme a Igor, sedute a bordo strada, con l’impermeabile addosso, in attesa del carro attrezzi.
La mamma ha scritto: «La strada è tutta piena di buche. Igor dice che per viaggiare su queste strade servirebbe un carro armato».
Ho risposto: «Ho sentito che ci sono parecchi carri armati russi in Ucraina, al momento. Perché non ne prendete uno in prestito?».
E lei mi ha spedito una faccina che rideva fino alle lacrime.
Il terzo giorno di viaggio sono arrivati alla stazione del treno vicino alla quale si trovava il paese del nonno. La stazione era ancora in piedi. Esattamente come descriveva il nonno nelle sue memorie, da lì partivano solo quattro treni al giorno. Il paese non esisteva più. E nemmeno la casa a tre piani in cui era cresciuto. Con l’aiuto di Igor, hanno chiesto ai passanti se avevano notizie di una casa di mattoni da quelle parti, ma quelli facevano spallucce.
Hanno visitato il cimitero ebraico, nel paese vicino. Speravano di trovare la tomba di qualche parente, invece c’erano solo frammenti di lapidi coperte di muschio. Su nessuna compariva il loro cognome. Mi hanno spedito la foto del cancello del cimitero. Sorridenti. Con l’impermeabile addosso.
Sotto, la mamma aveva scritto: «Noi non ci arrendiamo!».
Mentre tornavano dal cimitero alla pensione in cui pensavano di trascorrere la notte, Igor ha ricevuto una telefonata. Suo fratello era stato ucciso dal proiettile di un carro armato russo sparato su Donec’k. Mia madre, psicologa, e sua sorella, assistente sociale, sono rimaste a fargli compagnia fino a mezzanotte. Hanno ascoltato racconti su suo fratello. Gli hanno asciugato le lacrime.
A un certo punto Igor però ha detto: «Basta parlare. Adesso io fare quello che un uomo fa quando è triste».
La mattina dopo l’hanno trovato lungo disteso sulla soglia della loro camera. La fronte gigantesca baciava la terra. Era in preda a una grave ipotermia. La padrona della pensioncina è scoppiata a ridere quando hanno chiesto un’ambulanza. Allora l’hanno trascinato fuori e infilato sul sedile posteriore. E sono partite per l’ospedale più vicino. Che era tutt’altro che vicino. Si sono alternate alla guida. Ogni volta che una si stancava, l’altra le dava il cambio.
C’era il sole per la prima volta dall’arrivo in Ucraina.
I fiumi si diramavano in ruscelli.
Campi di granturco si allungavano fino all’orizzonte.
La radio trasmetteva canzoni in ucraino.
Sono riuscite a immaginare il loro papà da bambino, che cresceva tra quei paesaggi.
Al pronto soccorso le ha accolte un medico simpaticissimo. Quando il loro sguardo è caduto sulla piastrina con il nome sul suo camice hanno scoperto, sorprese, che era il loro stesso cognome. La mamma mi ha mandato una foto di loro, sorridenti, con addosso l’impermeabile, abbracciate al dottore. Sotto c’era scritto: «Igor si è ripreso. Con il medico siamo tornate indietro già di tre generazioni senza trovare radici comuni. Ma noi non ci arrendiamo!».
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